Here is a free sample of Sola al Mondo for your reading pleasure!
Capitolo 1
SI SVEGLIÒ AL CHIARORE dell’alba. Tutto taceva. Si udivano dei suoni distanti: un quiz televisivo, voci alte, il rumore del traffico. Ma lì nel suo bozzolo non c’era alcun suono. Nessun movimento. Nessun respiro. Assoluto silenzio.
Si sfilò le lenzuola di dosso, appallottolandole e premendole contro il viso per trovare conforto. Sebbene non ci fosse nessuno, percepiva una presenza. Aveva paura. Un profondo senso di terrore le comprimeva lo stomaco bloccandole il fiato, costringendola a fare respiri rapidi e lievi. Cercò di farlo silenziosamente. Così che la presenza non si accorgesse di lei. Se qualcuno avesse saputo che si trovava lì sarebbe successo qualcosa di brutto. Non sapeva bene cosa fosse quel qualcosa, ma il cuore le picchiava nel petto, colmo di angoscia e del presentimento che quel qualcosa potesse verificarsi in ogni momento. Si premette il lenzuolo contro il viso per un altro paio di minuti. Infine, lo tirò via e iniziò a muoversi. Avanzò sul pavimento, tutti i sensi all’erta. L’appartamento era buio. Un odore putrido le mozzava il fiato, ma non c’era niente che potesse fare per mandarlo via.
Sentì crescere la fame. Singhiozzò per un momento rendendosi conto di quanto avesse bisogno di sfamarsi e del dolore provocato dal digiuno. Non c’era nulla da mangiare. Udì dei passi lungo il corridoio, rimase immobile e aspettò. I passi non si arrestarono davanti alla porta. Non entrò nessuno. Riprese a camminare, trascinandosi avanti lentamente. Impiegò molto tempo per andare da un lato all’altro della stanza. Si sentiva debole e dovette fermarsi molte volte per recuperare le forze. Ad ogni rumore, calpestio o scricchiolio dell’edificio, si fermava per ascoltare, aspettando la fine. Attendendo il dolore. Temendo il peggio.
Usò un bicchiere per prendere un po’ d’acqua dalla bacinella. Era fredda e aveva un cattivo sapore, ma da molto tempo ormai non le importava più. L’acqua le rinfrescò le labbra secche. Procurò un po’ di sollievo alla gola dolorante. Le riempì lo stomaco vuoto. Ansimava ad ogni bicchiere, affannata per la fretta di riempirsi lo stomaco, sebbene l’acqua non le regalasse un sollievo duraturo. Poi si rimise distesa, rannicchiata, gli occhi pesanti.
Un forte bussare alla porta svegliò Justine di soprassalto. Si mise a sedere, sussultando per la sorpresa. Guardò disorientata la porta della sua camera per un lungo istante, tentando di capire dove di trovasse e di separare il sogno dalla realtà. Sentì bussare di nuovo e udì la voce esasperata di sua madre.
«Justine! Svegliati! Devi andare a scuola!»
«Sono già sveglia,» le gridò di rimando Justine, il disorientamento e la paura arrecati dall’incubo interrotto si tramutarono in rabbia. «Lasciami in pace!»
«Sarà meglio che ti trovi lavata e vestita fra dieci minuti.»
«Non credo proprio,» borbottò Justine sottovoce. Em cercava sempre di metterle fretta.
Rimase stesa per qualche minuto nel letto caldo e soffice, chiuse gli occhi e tentò di riportare alla memoria i dettagli del sogno. Faceva lo stesso identico incubo, o quasi, molto spesso. Odiava addormentarsi la sera, sapendo ciò a cui poteva andare incontro. Le si ripresentava a ripetizione, tutta la notte. Poi si svegliava al mattino e le sensazioni provate nel sonno persistevano, ai margini del suo inconscio. La mattina a scuola si sentiva stanca, faceva fatica a concentrarsi sui banali compiti che le venivano assegnati. Allora perché sentiva il bisogno di ricordarne i dettagli? Per riprovare le stesse sensazioni? Se si trattava di un incubo al quale tentava disperatamente di sottrarsi ogni notte, perché ora cercava di ricordarlo? Non aveva senso. Ma quel sogno era parte di lei. Il motivo ancora non lo comprendeva. Voleva capire meglio se stessa, capire da dove venissero tutte quelle emozioni e da cosa fossero scatenate.
Si stava appisolando di nuovo, il sogno si faceva sempre più largo nella sua mente. Vide susseguirsi alcune rapide immagini, dissociate tra loro, lontanissime, impossibili da comprendere e da connettere tra loro.
«Justine!» gridò Em, e il bussare alla porta ricominciò.
«Ti ho detto che sono sveglia!» urlò Justine dall’altra parte della porta. Tirò via le lenzuola con uno scatto e le lasciò aggrovigliate nel letto. «Mi sono alzata, smettila di darmi fastidio!»
«Farai tardi a scuola. E mi farai fare tardi a lavoro!»
«Non mi importa!»
«Justine!» La voce di sua madre era piena di frustrazione e teneva a malapena a freno la collera. «Muovi il culo e vieni qui! Subito!»
Justine sorrise con cupa soddisfazione di fronte alla rabbia della madre. Em se l’era meritato, era una tiranna. Justine mosse con un calcio i vestiti ammucchiati attorno al letto. Le serviva qualcosa da mettere a scuola. Tirò fuori un paio di larghi jeans sgualciti. Erano abbastanza puliti. Probabilmente la direzione le avrebbe rimproverato i buchi alle ginocchia, ma a lei non importava. Si sfilò il pigiama, infilò i pantaloni e si mise alla ricerca di una maglietta. Ne trovò una ben stropicciata che avrebbe fatto al caso suo. Aveva una macchia di pomodoro sul davanti, ma sarebbe andata via se si fosse presa la cura di tamponarla con un panno umido. Justine la infilò lasciandola fuori dai jeans e prese il suo cappello preferito dal gancio dietro la porta. Era fatto all’uncinetto, con un frontino che le faceva ombra sul viso facendola assomigliare a uno di quei cattivi misteriosi nei racconti di Sherlock Holmes. Se lo mise in testa. Poi uscì dalla camera.
Em uscì dalla cucina e si voltò a guardare Justine quando la sentì scendere le scale.
«Justine,» la sua voce traboccava disapprovazione. «Non puoi andare a scuola conciata in quel modo.»
«Che c’è di male?» la sfidò Justine. «La macchia la posso pulire. Non importa a nessuno come mi vesto.»
«Dovrebbe importarti come appari. È che… sembra che tu abbia dormito con quei vestiti addosso per una settimana. La gente penserà che non so prendermi cura di te.»
«Beh, è vero,»
«Non ti sei lavata.»
«No. Sono in ritardo, non ho tempo.»
«Quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatta una doccia?» insistette Em.
«Non so. Un paio di giorni fa.» Justine scrollò le spalle.
«I ragazzi a scuola si lamenteranno dell’odore. Le voci gireranno. Non vorrai che tutti pensino che puzzi. Nessuno vorrà starti attorno.»
«Mi va benissimo,» disse Justine con voce piatta. Non aveva bisogno di nessuno. Potevano starle tutti alla larga per quanto la riguardava.
Scansò la madre e aprì il frigo, cercando qualcosa da buttare giù prima di andare a scuola.
«Siediti e fai colazione,» disse Em con fermezza. «Vuoi i cereali? Uova? Pane tostato?»
Justine riemerse dal frigo con in mano un trancio di pizza e un succo di frutta.
«Non ho tempo di sedermi,» disse, «e farai meglio ad andare al lavoro,» disse facendo cenno con la testa verso l’orologio, «sennò fai tardi.»
Em guardò l’orologio, perfettamente consapevole di quanto si stesse facendo tardi, e si voltò di nuovo verso la figlia.
«Vai dritta a scuola?»
«Sì,» Justine tracannò il succo direttamente dal barattolo. Era una cosa che Em detestava. Justine la guardò per vedere la sua smorfia di disappunto. «Adesso vado.»
«Non voglio ricevere telefonate perché sei in ritardo o assente. Pettinati i capelli prima di andare,» la istruì Em, avviandosi verso la porta. Prese la valigetta che era sopra il tavolo.
Justine si girò, ignorando le istruzioni, e diede un grande morso alla pizza.
«Ti voglio bene,» disse Em, e sfrecciò fuori dalla porta.
Almeno stavolta non aveva tentato di darle un bacio. Justine si appoggiò al piano della cucina, masticando la pizza. Non aveva fretta di andare a scuola. Guardò Em uscire dal vialetto con l’auto e partire. Justine mangiò la pizza e terminò il succo tranquillamente. Posò il barattolo mezzo vuoto sul tavolo e lo lasciò lì.
Justine andò in bagno e si guardò allo specchio. Era contenta di non assomigliare alla madre. Em aveva i capelli biondo scuro, era elegante e bella, l’incarnazione della perfezione. Soprattutto, amava avere un bell’aspetto. Non le piaceva vedere le rughe e le linee di espressione che le comparivano sempre più numerose sul viso, e per queste incolpava Justine. Non aveva mai avuto rughe prima di avere Justine. O capelli bianchi. Ora aveva sempre un aspetto stanco, e a volte non riusciva nemmeno a raccogliere le forze per litigare con Justine.
Justine, d’altro canto, aveva una folta e lunga massa di capelli castano scuro. Aveva gli occhi azzurri, di un blu profondo e luminoso. Non erano come quelli di Em, azzurro pallido, insignificanti. Aveva mani e piedi grandi, quasi come quelli di un uomo, e le sue lunghe gambe la facevano già spiccare di qualche centimetro rispetto ad Em. Justine immaginava di aver ereditato le sue caratteristiche fisiche dal padre, chiunque egli fosse. O forse c’era un’altra madre da qualche parte, una che le assomigliava. Una che Em le teneva segreta.
Justine aveva legato i capelli in una lunga treccia per dormire, era l’unico modo per tenere le ciocche in ordine durante il giorno. Era sicuramente dieci volte meglio di doversi fare shampoo, balsamo e asciugatura ogni giorno. Tuttavia, non l’aveva intrecciata con cura, e parecchi ciuffi si erano sottratti all’acconciatura formando dei ricci scompigliati ai lati del viso. Sfilò l’elastico dall’estremità della treccia e iniziò a sciogliersi i capelli, snodando la treccia e passando le dita tra i capelli cercando di metterli in ordine ai lati del viso e lasciandoli cadere all’indietro. Risultato discreto. Non si prese la briga di pettinarli come Em le aveva suggerito. Tamponò la macchia di sugo dalla camicia rimuovendone una buona parte, lasciando solo un lieve alone arancione. Per finire, si schizzò un po’ d’acqua in faccia, mise il deodorante sulle ascelle e uscì di casa.
Afferrò lo skateboard che la attendeva davanti alla porta principale. Dopo aver sceso i gradini, lo posò a terra e ci montò sopra. In un attimo si sentì trasformare. Con il vento che le soffiava i capelli all’indietro, sentì dissolversi tutti i sentimenti negativi che aveva provato fino a un momento prima. Era libera. Non era più Justine, la figlia di Em. Non si sentiva più piantata a terra. Era come se il vento vigoroso la stesse gonfiando come un palloncino, sollevandola e facendola volare nel cielo sopra la città. Espirò lentamente l’aria dai polmoni, assaporando il breve istante di libertà.
Il tragitto verso scuola non durò abbastanza a lungo. Justine avrebbe desiderato avere un altro paio di ore per continuare ad andare sulla sua tavola, lasciandosi trascinare dal vento. Sfrecciare sulla sua tavola le aveva sempre dato una sensazione di libertà. Lo skateboard era una delle sue poche vere gioie. Rimase sullo skateboard anche quando scese dal marciapiedi per immettersi su quello della scuola. Il signor Berkoff, il bidello della scuola, stava metodicamente raccogliendo immondizia da terra, e le gridò contro.
«Scendi da quello skateboard!» urlò. «Lo sai che è proibito nel cortile!»
«Non sto rompendo niente,» ringhiò Justine. Ma scese dalla tavola dandole un colpo di piede per farsela balzare in mano. «Non capisco perché è vietato.»
«Potresti finire addosso a qualcuno,» le disse Berkoff, iniziando a contare i motivi sulle dita. «Potresti arrecare danni alla scuola. Disturbare gli studenti che sono già in classe… non come te, che non sembri nemmeno ricordare a che ora suona la campanella.»
«Magari non ho lezione alla prima ora,» disse Justine sorridendo. «Magari ho un’ora buca.»
«Non hai un’ora buca,» affermò Berkoff.
Non che lui lavorasse nell’amministrazione. Non che lui conoscesse gli orari delle sue lezioni. Stava solo tirando ad indovinare. Cercava di apparire intelligente quando non lo era. Tutto quello che sapeva fare era raccogliere immondizia. Justine gli rivolse un sorriso beffardo con aria di superiorità, ed entrò a scuola. Una volta entrata, pensò per un attimo di rimettere a terra la tavola e per raggiungere il suo armadietto. Ma se l’avessero beccata, ed era molto probabile, vi sarebbero state gravi conseguenze. Non aveva voglia di rimanere a scuola in punizione. Non aveva intenzione di passare più tempo del dovuto in quel luogo.
Quando Justine giunse al suo armadietto, vi ripose lo skate e tirò fuori la pila di libri di cui aveva bisogno per le lezioni della mattina. Estrasse il telefono per controllare l’ora. Non era troppo in ritardo, la campanella era suonata solo da dieci minuti. Sarebbe riuscita a seguire quasi tutta la lezione.
«Signorina Bywater,» disse una voce piena di disappunto, «lei è in ritardo.»
Justine si voltò trovandosi davanti il vicepreside. Il signor Johnson era alto e magrissimo. Aveva un po’ l’aria scompigliata, come se anch’egli fosse stato in ritardo e avesse dovuto correre per arrivare in tempo in ufficio. Con i capelli sottili e gli occhiali con la montatura fina pareva più vecchio di quello che doveva essere. Si passò una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. Justine gli rivolse un sorriso esitante.
«Mi scusi, signor Johnson,» disse con un tono di voce che sperò sembrasse sincero, «non devo aver sentito la sveglia, sono rimasta in piedi fino a tardi per pulire ieri sera, e mia mamma non era lì per svegliarmi. Sono venuta il prima possibile.»
«Non voglio sentire scuse,» disse il signor Johnson con aria eccessivamente formale, allentandosi la giacca con entrambe le mani. «Non è la prima volta che la trovo in ritardo. Ormai è cresciuta, è quasi adulta. Non dovrebbe aspettare che qualcun altro le dica che è ora di alzarsi. Può prendersi la responsabilità di svegliarsi per tempo da sola.»
«Lo so. E di solito lo faccio,» disse Justine con onestà. «Questa è stata l’unica volta. Avevo messo la sveglia, ma era troppo stanca…»
«Allora vada a letto prima,» disse lui, scuotendo la testa e guardandola da sopra la montatura.
Il sorriso di Justine si spense. Batté velocemente le ciglia e alzò gli occhi verso il soffitto come per tenere a freno le lacrime.
«Ho dovuto lavorare… ma… sì, signor Johnson.»
«Lei è una ragazza sveglia,» disse lui, il suo tono si era fatto leggermente più conciliatorio. «Non voglio vederla scendere nel baratro e mollare. Ha del potenziale. Ma per sfruttarlo deve essere qui, e deve arrivare in orario. Quando sarà adulta ci si aspetterà che arrivi a lavoro in orario.»
«Sì, signore,» asserì Justine.
Lui si guardò le mani, come se non sapesse più cosa aggiungere.
«La prego di impegnarsi,» disse infine.
«Okay. Lo farò.»
Il signor Johnson annuì rapidamente e se ne andò. Justine lo guardò allontanarsi, finché non scomparve girando l’angolo in fondo al corridoio.
«Vecchio stupido,» borbottò Justine.
Richiuse lo sportello dell’armadietto e chiuse il lucchetto, facendolo scattare. Guardando di nuovo il telefono, si avviò verso l’aula dove aveva la prima ora. Ora sì che era davvero in ritardo. Il signor Johnson voleva che arrivasse a lezione in orario ma l’aveva tenuta a parlare in corridoio quando avrebbe dovuto correre in aula? Che senso aveva? Justine si intrufolò nell’aula e si guardò intorno. L’insegnante era girato di spalle, intento a scrivere alla lavagna, così Justine si diresse in punta di piedi verso il suo banco e si sedette. Quando l’insegnante si voltò per continuare la spiegazione, i suoi occhi si posarono su di lei, e la studiarono accigliati.
«È in ritardo, signorina Bywater.»
«Sì, signore,» ammise Justine a testa bassa. «Ne ho già parlato con il signor Johnson.»
Lui rimase in silenzio per un attimo, poi tornò alla spiegazione. Justine lasciò uscire il fiato
ed aprì i libri.
La pausa pranzo pareva non arrivare più, ma finalmente la campanella suonò e la folla schiamazzante di studenti si riversò nel corridoio, affrettandosi verso gli armadietti e poi a pranzo fuori o giù alla mensa. Justine scaricò i libri nell’armadietto e prese lo skate. Si mise in coda alla mensa, giocherellando nervosamente con la tavola. Moriva di fame ed era impaziente di ricevere del cibo. Dietro di lei nella coda c’erano due ragazze che conosceva, immerse in un’animata discussione riguardante il loro pranzo. Entrambe volevano i burritos grandi, ma non avevano abbastanza soldi. Si voltò a guardarle.
«Ve li prendo io i burritos,» offrì. «Li volete?»
Macy e Darlene si scambiarono un’occhiata, poi la guardarono.
«Cosa?» chiese Darlene. «Stai parlando con noi?»
«Sì. Volete i burritos? Ve li compro io.»
Justine non sopportava l’idea che qualcuno rimanesse con la fame.
«Non abbiamo bisogno che ci compri le cose tu,» la rassicurò Macy.
Justine alzò le spalle e andò avanti. Mise tre burritos sul suo vassoio e un latte al cioccolato. Se le due ragazze la osservarono senza commentare. Alla cassa, Justine pagò tutto. Macy e Darlene pagarono dopo di lei. Justine si girò e diede un burrito ad ognuna, posandoli sui loro vassoi.
«Dove hai preso tutti quei soldi?» la sfidò Darlene, fissando apertamente i vestiti sgualciti di seconda mano di Justine.
«Li ho vinti,» disse Justine, «con una scommessa.»
Darlene alzò gli occhi e scosse il capo.
«Non è vero.»
Justine alzò le spalle.
«Li volevate, no? Eccoveli.»
Darlene annuì.
«Non ti siedi comunque al nostro tavolo,» disse Macy sogghignando.
Justine sentì il viso paralizzarsi. Aveva pagato loro il pranzo, in modo che non rimanessero affamate, e loro continuavano a trattarla come se avesse la peste? Potevano mangiare il suo cibo, ma non si potevano sedere al suo stesso tavolo?
«Tanto non mangio qui,» disse Justine in tono sprezzante. «Perché dovrei voler mangiare con voi?»
Justine si voltò e se si allontanò. Ripose il vassoio prendendo solo il burrito e il latte al cioccolato. Uscì a grandi passi dalla mensa e fuori dalla scuola, ribollente di rabbia. Ma perché le importava? Non le stavano nemmeno simpatiche. Non le importava cosa pensassero gli altri di lei a scuola. Non aveva bisogno di sedersi con nessuno. Era una ragazza grande, indipendente, tosta. Non doveva sedersi vicino agli amici come all’asilo. Justine mise la tavola per terra e vi salì, sfrecciando velocemente sul marciapiede. L’aria le soffiava sul viso, i capelli le ondeggiavano all’indietro e il cuore le batteva forte mentre spingeva per andare più veloce. Quelle ragazze non erano nessuno. Sapevano andare sullo skateboard? Sapevano fare qualcosa oltre a riempirsi così tanto di trucco la mattina da sembrare prostitute? Perché avrebbe dovuto voler avere a che fare con loro?
Dopo un po’ Justine rallentò. Continuò ad andare a passo d’uomo, mangiando il suo burrito. I burritos grandi erano una leggenda a scuola, e sebbene fossero ben incartati nella plastica, erano difficili da mangiare. Pur stando attenta, Justine non poté evitare di farlo gocciolare, e la sua camicia semi pulita si macchiò nuovamente. Come faceva la gente a mangiare quei cosi senza ritrovarseli tutti spalmati sui vestiti? Cosa avrebbe dato Justine per vedere Darlene e Macy intente a mangiare i loro burritos, tutte ordinate e graziose, ad asciugarsi continuamente i lati della bocca con i tovaglioli. In ogni caso, con la loro linea impeccabile era sorprendente che intendessero mangiare dei burritos. Un’insalata sarebbe stata già troppo calorica. Un pensiero le passò per la mente. E se si fossero messe a parlare in quel modo solo per vedere la sua reazione? Magari non volevano davvero i burritos, magari volevano solo vedere come avrebbe reagito, se sarebbe intervenuta rendendosi ridicola e comprando loro qualcosa che non avrebbero neanche pensato di mangiare. Justine si sentì arrossire, e il cuore iniziò a martellare di nuovo, stavolta per la rabbia, non per lo sforzo. Avevano agito così solo per sfotterla? Per vedere se avrebbe speso soldi per loro? Se li avrebbe sprecati così? Se avrebbe dimostrato interesse nel diventare loro amica solo perché loro potessero prenderla di nuovo in giro? Justine era talmente in collera che scaraventò la metà rimanente del burrito in un cestino al suo passaggio. Sentiva il sangue ribollirle nelle vene.
Fece un giro del laghetto, passando accanto a gente che portava a spasso il cane e a donne con i passeggini. Tutti la guardarono irritati, ma nessuno le disse che non poteva stare nel parco. Scese giù per una delle sue discese preferite, e fece qualche mezzo salto. Era ora di tornare a scuola. Justine fu di ritorno al suo armadietto prima che suonasse la campanella, non volendo passare per la ritardataria due volte di fila nello stesso giorno. Passò accanto Macy e Darlene, le quali bisbigliarono e ridacchiarono fissandola mentre lei le superava.
All’ora di matematica, quando Justine si sedette, Megan si voltò rivolgendole un sorriso amichevole. Megan aveva i capelli corti e occhiali tondi con la montatura spessa, e Justine pensava la facessero sembrare un po’ Velma di Scooby Doo. Le mancava solo il maglione arancione.
«Ehi, Justine.»
Justine annuì, senza ricambiare il sorriso. «Ciao,» rispose concisamente, e aprì i suoi libri.
«Tutto bene?» chiese Megan.
«Sì, perché?»
«Non so, sembri triste. Chiedevo solo.»
«Lasciami in pace,» grugnì Justine. «Sto bene.»
Megan si voltò. Phillip era voltato davanti a Megan e le disse qualcosa. Megan scosse il capo, avvicinò il viso al suo e parlarono a bassa voce per un po’, guardando Justine durante la conversazione. Justine non riusciva a sentire cosa dicessero di lei, ma sul finire della conversazione udì un nome che le trafisse il cuore. “Christian”. Megan rivolse un’altra occhiata compassionevole a Justine e si voltò verso la lavagna mentre l’insegnante iniziava la lezione. Justine abbassò la testa appoggiandola sulle braccia incrociate, chiudendo gli occhi, travolta dai ricordi dolorosi. Il cuore le doleva.
Dopo la scuola, Justine andò verso casa per fare uno spuntino. Era stanca e stressata e aveva solo voglia di oziare davanti alla TV con i suoi cibi spazzatura preferiti. Ma mentre si avvicinava a casa a bordo dello skate, vide che l’auto di Em era già parcheggiata lì davanti. Era uscita presto dal lavoro, oppure si era portata il lavoro a casa. Entrambe le opzioni non promettevano nulla di buono. Non sarebbe riuscita a rilassarsi da sola con Em in casa.
Con un lungo sospiro Justine aprì la porta d’ingresso e si trascinò dentro. Em alzò lo sguardo dalle sue carte sparpagliate sul tavolo della cucina.
«Ciao, tesoro,» la salutò allegra. «Com’è andata a scuola?»
Justine alzò gli occhi e attraversò la sala da pranzo diretta in cucina.
«Voglio mangiare qualcosa,» disse.
«Ti ho già preparato qualcosa. So che hai sempre tanta fame quando torni da scuola.»
Justine guardò il piatto su cui erano disposti dei pezzi di mela e il bicchiere di latte sull’isola della cucina.
«Seriamente?» sospirò. Quanti anni aveva? Cinque? Infilò la testa nel frigo e lo ispezionò. Ovviamente Em l’aveva già ripulito. Il resto della pizza avanzata non c’era più. Così come la pasta al formaggio che Justine aveva fatto il giorno prima. Justine si mise a perlustrare la credenza, spostando scatole di cereali e altri prodotti secchi. Durante la sua cernita Em si era fatta sfuggire un pacchetto di patatine che Justine aveva preventivamente nascosto. Lo tirò fuori e srotolò il sacchetto per aprirlo. Niente soda o latte al cioccolato nel frigo. Ma Em non poteva fare a meno del caffè, quindi quello c’era ancora, e Justine ne preparò una tazza.
Em entrò in cucina qualche minuto più tardi, probabilmente perché aveva sentito l’odore di caffè, e guardò Justine con le sue patatine e il suo espresso.
«Justine! Stiamo cercando di mangiare sano! Non puoi mangiare quella roba!”
«Posso mangiare quello che voglio,» disse Justine, stipando un’altra manciata di patatine nella bocca, nell’eventualità che Em avesse tentato di togliergliele.
«No, non puoi mangiare quello che vuoi. Fa male al tuo corpo e fa male anche all’umore e al cervello. Avevamo deciso di mangiare più sano e di togliere tutta questa robaccia dalla tua dieta. Il dottor Morton dice…»
«Non ho mai deciso niente,» la interruppe Justine. «Tu e il dottor Morton avete deciso, non io. Non ho mai accettato di rinunciare al mio cibo e iniziare a mangiare insalate e roba del genere. Non puoi obbligarmi.»
«Corpo sano, mente sana,» Em iniziò con la predica. «Alcuni studi hanno dimostrato che con terapie nutrizionali si possono modificare le sostanze chimiche presenti nel cervello…»
«Non sono un topo da laboratorio,» sbottò Justine. «Non puoi fare esperimenti sul mio cervello!»
Em rise.
«Vogliamo che tu ti senta meglio. Vogliamo che tu ti senta al sicuro, che tu sia felice…»
«Non mi fate sentire al sicuro giocando con la mia testa. Non voglio che mi modifichi il cervello!»
Justine era sicura che se avesse ottenuto il consenso del dottor Morton, le avrebbe attaccato elettrodi alla testa.
«Non ti stiamo mica operando o iniettando sostanze nocive, e non ti usiamo nemmeno come cavia per le medicine. Tutto quello che diciamo è che dovresti mangiare sano, prenderti cura del tuo corpo. Forse quando ti ammalavi da piccola, il tuo corpo e il tuo cervello non ricevevano tutto quello di cui avevano bisogno. Magari per via del trauma, le sostanze nutritive andavano ad esaurirsi quando eri malata, forse è stato allora che le cose sono cambiate, perciò…»
La sua voce iniziò ad affievolirsi. Justine fissò Em, masticando deliberatamente con forza le patatine. Le mandò giù con un altro sorso di caffè.
«Non puoi obbligarmi,» ripeté.
«Se compro solo cibo sano ed è l’unica cosa che trovi in casa…»
Justine si riempì la bocca con una grossa manciata di patatine e le masticò, le guance gonfie di cibo. Em sospirò frustrata, e alzò le braccia al cielo per il disgusto. Si voltò e uscì dalla stanza. Justine annuì tra sé e sé e bevve un altro sorso per mandare giù il boccone.
«Non toccarmi il mio cibo,» disse nel silenzio della stanza. «Non ti lascerò farmi morire di fame.»
Em la lasciò in pace per un po’, e Justine salì in camera sua per fare i compiti. Ma Em arrivò, aprendo la porta all’improvviso senza bussare e profanando il luogo sacro di Justine. Justine balzò per la sorpresa e l’adrenalina improvvisa le fece salire la collera.
«Esci!» urlò Justine, la gola dolente per la violenza del grido. «Non puoi entrare in quel modo! Il dottor Morton ha detto che devi rispettare la mia privacy!»
Il viso di Em si rattristò. Unì labbra formando una linea sottile, e Justine si ritrovò a guardarsi intorno per cercare una via di fuga. Em era avvilita per qualche motivo e se Justine l’avesse portata al limite…
«Dove sono i soldi che avevo nel portafoglio?» sbottò Em.
Justine si sforzò di assumere un atteggiamento naturale, sereno, appoggiandosi comoda al letto e scrollando le spalle.
«Non lo so. Dove sono i soldi che avevi nel portafoglio?»
«Me li hai presi tu. Mi hai aperto il portafoglio e li hai presi!»
Justine aggrottò le sopracciglia.
«Perché dovrei fare una cosa del genere?»
«Perché sei una mascalzona ingrata! Non posso credere che dopo tutto quello che ho passato per aiutarti, per nutrirti, crescerti e farti sentire al sicuro, sei arrivata addirittura a rubarmi i soldi! Perché, Justine?» chiese, la il tono della sua voce si alzava sempre di più.
Justine trasalì all’improvviso per l’alzarsi del suo tono.
«Seriamente?» disse. «Ti accanisci su di me perché hai perso dei soldi? Ottimo modello genitoriale, Em.»
«Me li hai rubati tu!»
«Dimostralo,» disse Justine con calma, gli occhi spalancati e innocenti.
Em la fissò, gli occhi pieni di rabbia. Justine faticò a non mostrarsi tesa.
«So che li hai presi tu e sai di averlo fatto. Non siamo in tribunale. Non bisogna dimostrare niente. Il problema è che tu hai frugato tra le mie cose e mi hai rubato i soldi.»
«Beh, se sei così sicura che te li ho rubati, cosa fai adesso?» la sfidò Justine.
Em abbassò con forza le sopracciglia.
«Per cominciare sei in punizione. E ne parlerò con il dottor Morton. Ti ci farà lavorare per farti passare il problema.»
«Ah, vai a fare la spia con il dottor Morton?»
«Sto cercando di aiutarti, Justine!»
«Parlare con quel ciarlatano non mi aiuta. È mai riuscito ad aiutarmi negli ultimi dieci anni?»
Em la guardò per un attimo, la rabbia iniziava a calare.
«Penso che per un po’ ti abbia aiutata,» disse lentamente, «ma poi…»
La collera di Justine aumentò davanti all’insinuazione che lei fosse malata e che loro potessero aiutarla.
«Non ho niente che non va,» disse con aria di sfida. «Sei tu che hai qualcosa che non va. Pensi di potermi dare ordini e che se non mi comporto da brava bambina devo avere dei problemi al cervello. E il dottor Morton si prende i tuoi soldi tutto contento per continuare a dirti che il mio cervello è incasinato. È un truffatore, Em. È un ciarlatano. Tutte quelle stupide terapie… l’abbraccio forzato, la terapia del gioco, quegli stupidi giochetti da ammaestratore di cani… pensi di potermi cambiare, ma non puoi!» Em aprì la bocca per ribattere, e Justine le urlò contro azzittendola. «Non puoi!»
«Iniziavi a stare meglio,» sostenette Em. «E iniziavamo ad andare più d’accordo, ad avere un rapporto migliore. E poi…» scosse la testa, gli occhi pieni di lacrime. «Cos’è successo, Justine?»
«Non è successo niente,» disse Justine fermamente, guardandola dritta negli occhi. Em aprì la bocca. «Non è successo niente,» ripeté, la voce stridula, la gola dolente per le urla. «Niente.»
Em scosse il capo. Aveva gli occhi tristi, la rabbia per i soldi rubati era sparita. Aveva quello sguardo d’amore e compassione che faceva sentire Justine in trappola. Em attraversò la stanza, e Justine si ritrasse, non per la paura di essere picchiata, ma perché sapeva cosa stava per succedere.
«Non toccarmi,» l’avvertì.
Em si sedette sul letto e circondò Justine con il braccio. Justine s’irrigidì, senza ricambiare il gesto.
«Ti voglio bene, Justine.»
«Non è vero.»
«Sono tua madre. Tu sei la mia bambina. Non importa quanto mi spingi via, io continuo a volerti bene.»
La stratta di Em si fece più forte, e iniziò a cullarla dolcemente. Justine si divincolò.
«Non sono più una bambina,» protestò. «Non puoi tenermi cullarmi!»
«Sei sempre mia figlia. Ti voglio bene. E so che gli abbracci ti fanno bene, anche se mi dici di no.»
Justine la spinse via, divincolandosi dall’abbraccio.
«Tieni giù quella mani,» obbiettò, «o chiamo i servizi sociali.»
«Per dirgli che ti ho abbracciata?» chiese Em con una breve risata.
«Per digli che mi hai toccata quando ti ho detto che non volevo e mi hai messa a disagio. Non hai il diritto di toccarmi. Conosco i miei diritti. Non devo farmi toccare o abbracciare da nessuno. Nemmeno da te.»
Il volto di Em si oscurò, e Justine seppe di aver colpito nel segno. Ma Em rimase calma e contenuta. Il dottor Morton ne sarebbe stato fiero. Le fece un sorriso forzato, l’amore non le brillava più negli occhi.
«Se lo facessi, appena i servizi sociali parleranno con il dottor Morton, capirebbero tutto. Non farebbero niente,» disse Em fingendo indifferenza.
Si fissarono a vicenda, in atteggiamento di sfida. Alla fine, Em si alzò e si diresse verso la porta.
«Sei in punizione,» affermò, e uscì chiudendo la porta dietro di sé.
Justine rimase seduta a guardare la porta chiusa, e maledisse Em sottovoce.
Capitolo 2
JUSTINE VAGAVA PER LA CITTÀ SENZA META a bordo del suo skateboard. Em si aspettava di vederla tornare a casa, ma dato che Justine era in punizione, non sarebbe tornata a casa per niente al mondo, altrimenti non avrebbe mai più avuto il permesso di uscire. Aveva ancora dei soldi rimasti in tasca, ma li conservava per procurarsi qualcosa di buono da mangiare. Non si sarebbe lasciata morire di fame se Em le avesse negato il suo cibo. Almeno quella sera avrebbe mangiato qualcosa che le piaceva.
Justine svoltò l’angolo ritrovandosi in una zona sconosciuta, aguzzò la vista cercando di scorgere qualche buona discesa o ostacolo da saltare o qualche area interessante. Era piuttosto lontana da casa, quindi non sapeva cosa avrebbe trovato. Non tornare a casa la sera aveva dei lati positivi. Aveva più tempo di andare in avanscoperta in luoghi più lontani. Un paio di isolati più avanti Justine si ritrovò in una strada che sembrava essere stata la via principale di un qualche vecchio paesino, prima che questo venisse inghiottito dalla città. La farmacia, la pizzeria e il teatro avevano l’aria antica. C’era qualche altro negozio in una piccola area commerciale ora occupata da un agopuntore, un contabile, e qualcuno di nome “Albert Farcourt” il quale aveva attaccato alla vetrina solo il suo nome, senza specificare la professione. Justine rallentò e si guardò intorno. Sfrecciò lungo il bordo del marciapiede prima di immettersi sulla strada con un salto, e fare un’ampia curva per tornare verso la pizzeria. Lo stomaco le brontolava già e quel pittoresco posticino emanava un odore di pomodoro e formaggio così forte che non poté resistere alla tentazione di entrare. In quel luogo nessuno la conosceva e poteva fingersi adulta, una persona matura, invece che una semplice ragazzina che non rispetta il coprifuoco.
Un campanellino attaccato in cima alla porta suonò al suo ingresso. Il ristorante era buio paragonato alla forte luce esterna del sole pomeridiano. Vi erano dei ripiani ruotanti su cui erano esposti i diversi tipi di pizza al trancio. Justine guardò i prezzi sulla lavagnetta del menù apposta sulla parete posteriore. I prezzi erano ridicolamente bassi e con ogni ordine veniva anche una bibita gratis.
Una donna asiatica si affrettò fuori dalla porta della cucina e andò al bancone, sorridendo.
«Vuoi pizza?» chiese allegramente. «Per te, faccio funghi o salamino a metà prezzo. Sono fuori da tanto, non voglio che diventano secche. Okay? Ti do?»
Justine mandò giù la saliva che le si era creata in bocca, valutando le opzioni.
«Va bene,» disse, «un trancio per una.»
«E ti do anche una bibita. Vuoi Coca-Cola? Sprite?»
«Coca,» disse Justine.
«Normale? No diet, giusto?»
Justine sorrise.
«No diet,» disse annuendo.
La donnetta le riempì un cartone di pizza con i due pezzi di pizza, prese una lattina di coca dal frigo e la posò sul bancone davanti a Justine. Justine le diede i soldi, la donna li ripose rumorosamente nella cassa e le diede il resto.
«Ecco qua, signorina con lo skateboard. Torna presto.»
«Lo farò,» disse Justine raggiante, impaziente di assaporare la sua cena.
La donna asiatica le piaceva. Tantissimi negozi vicino alla scuola e a casa odiavano gli skater. Non le facevano portare la tavola dentro, la guardavano sospettosi come se fosse una delinquente intenta a rubare o vandalizzare il negozio. Mandavano la sicurezza a seguirla per il negozio. Tutto questo perché aveva il buon senso di usare le ruote invece dei piedi, o di scegliere di non inquinare l’ambiente con un’auto. Questo la faceva diventare automaticamente una criminale?
Justine mangiò la sua pizza sporcandosi un po’ mentre proseguiva lentamente in cerca di un parco dove sedersi e mangiare, magari dove ci fosse anche qualche attrezzatura o rampa per allenarsi un po’. Invece di un parco, trovò una strada cieca. Stava per voltarsi e tornare indietro quando vide la casa. La esaminò lentamente con gli occhi. L’erba era troppo alta in giardino. Una finestra era sbarrata con assi di legno. Pubblicità e buste abbandonate strabordavano dalla cassetta delle lettere. La casa era chiaramente disabitata. Vuota.
Justine si guardò indietro per accertarsi che nessuno la osservasse, poi fece una lenta perlustrazione della via per controllare che non ci fossero altre persone. Non c’era nessuno. In alcune case si vedevano luci e TV accese, ma non c’era nessuno affacciato alla finestra a guardare la strada. Nessuno saliva in macchina o camminava con passeggini o portava a spasso il cane. Quella strada era più che silenziosa, era deserta. Justine scese dalla tavola e la fece balzare in su per afferrarla. Non aveva senso fare più rumore del dovuto. La gente avrebbe potuto ricordare il suono di uno skateboard solitario che vagava per le strade una sera. In punta di piedi Justine si avvicinò alla casa, esaminando le finestre a distanza di sicurezza, per poi andare dritta verso il cancello che si aprì sul giardino sul retro.
Il giardino era un disastro, non era curato come quello sul davanti. C’era un cerchione arrugginito di qualche vecchio catorcio. C’erano pietre e mattoni ammassati a formare un cerchio spartano per un focolare. Era pieno di lattine di birra vuote schiacciate e altra spazzatura in giro. Justine avanzò lungo il retro del giardino, attenta a segni di allarme antiladri o qualsiasi strumento di sorveglianza, esaminando porta e finestre per valutare quanto sicuro fosse l’edificio.
Non c’era traccia di sorveglianza elettronica. Justine sbirciò dalle finestre. La casa era vuota. Era così vuota e desolata che Justine sentì il cuore riempirsi del desiderio di occuparla. Di farla propria. Non ci viveva nessuno, quindi perché no? Chi poteva affermare che era meglio che la casa rimanesse vuota piuttosto che abitata da lei? Usando la camicia come guanto per evitare di lasciare impronte, Justine tentò di aprire tutte le finestre e la porta. Ovviamente erano tutte chiuse. Sferrò qualche calcio sotto la maniglia della porta, ma non era abbastanza forte da farla aprire. Guardandosi intorno per cercare qualcosa con cui fare leva, il suo sguardo cadde sulle pietre e i mattoni attorno al focolare. Sollevò un mattone e lo lanciò verso la finestra più bassa il più violentemente possibile. L’esperienza le aveva insegnato che il vetro è molto più difficile da infrangere di quanto sembri. Il lancio andò a buon fine e il mattone atterrò all’interno della casa con un rumore di vetri infranti. Justine rimase lì ferma per qualche minuto ad ascoltare. I vicini l’avevano sentita? Nessuno venne ad indagare. Justine prese il cerchione della ruota e lo portò vicino alla finestra per aiutarsi a salire. Ruppe i vetri rimanenti dai bordi della finestra con la sua tavola e aiutandosi con la camicia per non tagliarsi Fece scivolare la tavola attraverso la finestra. Contò fino a tre, si aggrappò al davanzale, si arrampicò con le gambe sul muro e poi si tirò su, prima le gambe, poi il busto, e scavalcò. Scavalcò il davanzale e atterrò sul pavimento con un salto.
Guardandosi intorno, Justine si strofinò le mani sui jeans per liberarsi dei vetrini rimasti attaccati. Non vennero via tutti e fu costretta a sfilarsi alcune schegge. Queste le provocarono piccoli rivoli di sangue, ma nulla di grave. Non c’era bisogno di punti, ed era in regola con il vaccino contro il tetano. Essendo una skater, non poteva scordare la data dell’ultimo richiamo per il tetano.
Justine perlustrò la piccola casa. Era impolverata e spoglia, ma pensò che avesse personalità. C’erano alcune tracce delle persone che l’avevano abitata, cosette lasciate qua e là. Una carta da parati carina nella stanza del bimbo. In cucina, la tappezzeria aveva un motivo di papere con un grembiule rosso.
Justine si sedette sul pavimento del soggiorno. Guardò gli scuri che coprivano le finestre e sentì salire l’irritazione. C’era qualcosa che non andava. Se quella era la sua casa… Non ci sarebbero dovuti essere degli scuri, solo tende. Non era un problema se il sole entrava dalla finestra al mattino. Rendevano l’ambiente più… rustico, più accogliente. Il tappeto che era sul pavimento era del colore sbagliato, ma, nella luce fioca della stanza, non importava più di tanto. Justine cercò di immaginarla ammobiliata. Il ronzio rassicurante di una TV. Un posto dove sedersi. Un tappetino sul pavimento per il bambino. L’immagine era così nitida quando chiudeva gli occhi che poteva quasi toccarla. Ma quando li riaprì, la stanza era vuota, non andava bene. L’immagine era così allettante, ma l’impossibilità di toccarla la demoralizzava.
Magari da grande, se mai fosse riuscita a diventare adulta, sarebbe diventata una decoratrice di interni. Adorava le sensazioni che provava di fronte ad una casa vuota. Riusciva a immaginare con precisione come sarebbe diventata. Sapeva esattamente cosa fare per arredarla. Ma probabilmente un cliente avrebbe avuto le proprie idee che non si sarebbero accordate con l’immagine che Justine aveva in mente.
Si distese sul pavimento e fissò il soffitto, sul quale la luce del sole della sera formava delle linee arancioni. Non andava bene. Avrebbe dovuto essere… Come? Justine chiuse gli occhi per visualizzarlo.
Il telefono le vibrò in tasca, spaventandola. Sapeva chi era anche senza guardare. Em. Che le chiedeva perché non era ancora a casa. Justine aveva disattivato il rilevatore di posizione dal suo telefono. Em le aveva comprato il telefono pensando di poter seguire i suoi spostamenti. Era forse stupida? Tutti gli adolescenti conoscevano il trucco. Eppure, tutti i genitori ci provavano lo stesso. Alcuni studenti lasciavano il localizzatore acceso mentre erano a scuola o nei posti dove dovevano essere, e lo spegnevano solo nelle rare occasioni in cui sentivano il bisogno di nascondersi, incolpando i punti morti del GSP se venivano interrogati. Justine non aveva voglia di fare tutto ciò. Lo teneva spento e basta.
Quando la chiamata passò alla segreteria telefonica (sfortunatamente la casella vocale di Justine era già piena di altri messaggi di Em, quindi non poteva lasciarne altri) Justine sbloccò lo schermo. Aprì un’applicazione per consumare la batteria, utilissima per le situazioni in cui non si voleva essere rintracciati. La fece partire e rimase seduta a guardare la batteria scaricarsi sempre di più finché il telefono non si spense.
Mi dispiace tanto Em, mi è morto il telefono.
Si ridistese sul pavimento e chiuse gli occhi, cercando di visualizzare la stanza arredata. Con l’arrivo del buio, si addormentò.
I sogni di Justine erano sempre irrequieti, cercava sempre di afferrare qualcosa di irraggiungibile. Si svegliò un po’ di volte, sentendosi scomoda sul pavimento e tremando per il freddo. Ogni volta chiudeva gli occhi di nuovo per visualizzare la casa, vedere che aspetto aveva nella sua immaginazione, e si riaddormentava.
Si svegliò di soprassalto al suono della porta sul retro che si apriva. Si girò sul fianco ancora assonnata e cercò di orientarsi e di capire cosa stesse accadendo. Si trovava in una casa vuota. La stanza era buia, un filo di luce proveniente dall’esterno entrava dalle fessure degli scuri. C’era qualcun altro nella casa. Qualcuno era appena entrato. Sforzandosi di muoversi, per prepararsi a scappare o proteggersi, Justine strisciò sul pavimento verso il muro, tenendosi bassa e passando nelle zone d’ombra più scure. Udì dei passi muoversi nella cucina diretti verso di lei. La luce di una torcia illuminò il pavimento a tratti, passando casualmente sul muro o in altri punti. Il ladro esplorava la casa. Justine si premette contro il muro, cercando di evitare la luce. Se il fascio di luce l’avesse illuminata…
Si udì il suono disturbato di una radio. Justine si concentrò per cercare di capire cosa dicesse, aggrottando la fronte. Un ladro con un walkie talkie? Aveva un complice che lo aspettava fuori? Aveva pensato di svignarsela passandogli dietro, se si fosse presentata l’opportunità, ma forse sarebbe stato meglio arrischiarsi a passare dalla porta d’ingresso. Il complice del ladro poteva essere fuori dalla porta sul retro. Quando l’uomo varcò la soglia del soggiorno, la sua sagoma divenne visibile riflessa sulla finestra della cucina, e Justine lo vide inclinare la testa verso la spalla mentre premeva un bottone sul suo walkie-talkie e diceva qualcosa. Lo guardò pietrificata. Che tipo di malintenzionato poteva mai essere?
Fece passare la luce per la stanza, e l’esitazione momentanea di Justine la fregò.
«Ferma lì!» le ordinò la sagoma scura.
Justine rimase immobile. Le puntò la luce direttamente in faccia.
«Chi sei? Cosa ci fai in questa casa?» chiese l’uomo, avvicinandosi.
Justine non rispose, strizzò gli occhi cercando di vederlo dietro la luce accecante.
«Cosa sei, un poliziotto?» chiese, intravedendo un’uniforme.
L’uomo si era avvicinato, la prese per un braccio e la fece girare faccia contro il muro.
«Mani contro il muro,» le ordinò, strattonandola con forza e costringendola a riprendere l’equilibrio appoggiando entrambe le mani al muro. Con una mano continuò a spingerle la schiena per tenerla attaccata al muro, e con l’altra mano le frugò nelle tasche, gettando sul pavimento tutto quello che vi trovava. Poi le abbasso le braccia e gliele legò dietro alla schiena con un paio di manette.
«Sei della polizia?» ripeté Justine.
«Sicurezza,» disse lui. «La polizia sta arrivando.»
Le puntò la luce di nuovo in viso, e mentre questa le annebbiava la vista, passò la luce sulle cose che le aveva rimosso dalle tasche e poi intorno alla stanza.
«Fuori,» le ordinò.
«Ma la mia roba…» protestò Justine.
«Se ne occuperà la polizia. Su. Vieni fuori.»
La spinse verso la porta sul retro, e Justine si lasciò trascinare fuori dalla casa. Le fece attraversare il giardino sul retro, il cancello, e la portò sul davanti della casa, facendola sedere sul bordo del marciapiede.
«Stai qui e comportati bene,» ordinò.
Alla luce dei lampioni, riuscì finalmente a vederlo. Portava l’uniforme di una società di sicurezza privata con il walkie talkie appeso alla spalla come un poliziotto. Era alto, robusto, di mezza età, bianco. La sua auto era parcheggiata di fronte alla casa dei vicini, e un altro uomo, magro e con i capelli bianchi, gli andò incontro.
«Hai controllato il resto della casa?» chiese.
«Ancora no. Stai qui con lei. Vado a controllare che sia tutto a posto.» Guardò Justine. «C’è qualcun altro lì dentro?»
Justine scosse il capo.
«No, solo io.»
Justine girò la testa per guardarlo dirigersi verso il giardino sul retro per poi scomparire. Sbadigliò, e si asciugò la bocca con la manica della maglietta.
«Fate i giri di pattuglia tutte le sere?” chiese alla guardia più anziana.
Lui annuì.
«Sì.»
Un’auto della polizia con le luci accese accostò di fianco, e un giovane agente scese dall’auto dirigendosi verso di loro.
«Sarebbe questo il ladro?» chiese sarcasticamente.
«Sì,» confermò la guardia. «Era dentro la casa. Daniel è tornato dentro per controllare. Per accertarsi che non ci fosse un fidanzato.»
«Cosa ci facevi lì dentro?» domandò il poliziotto voltandosi verso Justine.
Justine alzò lo sguardo verso di lui. Le erano sempre piaciuti i poliziotti. Anche quando finiva nei guai per qualcosa, la facevano sentire al sicuro. Questo aveva un viso amichevole. Barba rasata, capelli con taglio alla militare. I suoi occhi brillavano al buio. Justine gli sorrise.
«Qual è il suo nome?» gli chiese.
«Sono l’agente Carter,» disse lui in tono misurato. «Come ti chiami tu e cosa ci facevi in quella casa?»
«Dormivo. Mi chiamo Justine.»
«Justine cosa?»
«Justine Bywater.»
«Quanti anni hai, Justine?»
«Quindici.»
«Cosa ci facevi in quella casa?»
Justine scrollò le spalle, inclinando la testa verso di lui.
«Dormivo, tutto qui,» disse sorridendo con aria trionfante.
La guardia uscì dalla casa e fece un cenno all’agente Carter.
«Vuole fare una perlustrazione?» chiese.
«Sì, meglio se do un’occhiata.»
I due uomini tornarono nella casa. Justine guardò la guardia più anziana, sospirando. Stare seduti sul bordo del marciapiede era scomodo, con le mani ammanettate dietro la schiena. Ruotò le spalle e cambiò posizione, cercando di mettersi più comoda. Le doleva il coccige. I due uomini non impiegarono molto tempo a tornare fuori. L’agente Carter mise a terra la tavola di Justine insieme a tutti i suoi effetti personali.
«Non sei una senza dimora,» le disse.
«No,» disse Justine. «Non ho mai detto di esserlo.»
«Cosa ci facevi addormentata in una casa abbandonata?»
Justine scrollò le spalle e alzò gli occhi.
«Mi ero allontanata troppo da casa e mi sono persa. Non sapevo come tornare indietro. Quando sono passata davanti alla casa, ho visto la finestra rotta, sono entrata e… mi sono distesa un attimo per riposare…»
«Stai mentendo e non lo fai nemmeno tanto bene.»
«Perché dovrei mentire?»
«Sei scappata di casa? È così?»
«No. Mi sono solo persa,» disse con aria innocente.
«Perché non hai chiamato aiuto? Hai un telefono,» lo indicò con la scarpa.
«Mi è morta la batteria.»
Carter prese in mano il telefono e premette il tasto di accensione. Non si accese. Lo ributtò sul mucchio delle altre cose.
«Saresti potuta andare da qualche parte a cercare aiuto. Avresti potuto chiedere il telefono a qualcuno. In un negozio. Eri pieno di opzioni.»
«Immagino. È che ero confusa.»
Lui la studiò, aggrottando la fronte.
«Non capisco perché ti sei intrufolata in una casa vuota per dormire, a meno che tu non abbia dei problemi.»
Justine si sentì arrossire in viso e sperò che lui non se ne accorgesse al buio. Non aveva nessun problema. Era stato solo un impulso. Qualcosa che sentiva di dover fare.
«Alzati,» le disse l’agente Carter.
Justine si mise rigidamente in piedi. Aver dormito tutta la notte sul pavimento freddo non aiutava. Prendendola per i polsi dietro la schiena, l’agente le toccò le tasche per assicurarsi che la guardia non si fosse fatta sfuggire qualcosa.
«Sei in arresto per scasso e violazione di domicilio,» le disse.
«Non ho fatto nessuno scasso! La finestra era già rotta. Sono solo… entrata.»
«Non è casa tua, tesoro. Non puoi fare queste cose.»
Justine sospirò. Lui la condusse alla sua auto e aprì lo sportello posteriore.
«Attenta alla testa,» la avvertì, aiutandola a salire. Justine provò un’improvvisa sensazione di benessere al caldo tocco di quelle mani forti. Mise i piedi dentro e lui chiuse la portiera. Pensò che sarebbe entrato subito in macchina anche lui, ma invece parlò ancora un po’ con le guardie, e tornò di nuovo dentro la casa. Dopo qualche minuto, si sistemò finalmente sul sedile anteriore dell’auto.
L’attesa nella sala d’aspetto della stazione di polizia fu lunga e noiosa. Justine era ammanettata ad una panca, stavolta con le mani davanti, tra le gambe. La panca era leggermente più comoda del marciapiede di cemento, ma non di tanto. Le si intorpidirono i muscoli delle gambe a forza di restare seduta nella stessa posizione, a osservare il via vai nella stazione di polizia. Molti degli altri arrestati erano ubriachi, di tutti i tipi. Ubriachi senzatetto, ubriachi vestiti con abiti eleganti per una serata in città, ubriachi rumorosi e spiritosi, ubriachi silenziosi e tristi. Alcuni vomitarono. Alcuni di loro erano a malapena coscienti. Justine non aveva idea che così tante persone si sbronzassero in quel modo la notte. Ci fu anche qualche altro arresto. Una ragazza che aveva vandalizzato l’auto del fidanzato. Uno scasso in un negozio di alcolici. Una rissa con tanto di coltelli tra un signore alto e all’apparenza ordinario e un tipo basso, con i capelli lunghi e dall’aspetto ispanico che mostrava i denti a chi lo osservava. Nonostante tutto quel via vai, Justine si annoiava. Non capiva perché ci volesse così tanto.
Alla fine, vide Em entrare e recarsi al banco informazioni.
«Em! Em, sono qui!» la chiamò Justine.
Em si voltò e il loro sguardi si incrociarono. Em scosse il capo indignata. Justine ridacchiò vedendo l’espressione sul viso della madre. Em continuò a parlare con l’agente al banco delle informazioni, e finalmente l’agente Carter comparve e le fece cennò di seguirlo. Justine riuscì a sentire quello che diceva mentre le si avvicinavano.
«Dormiva in una casa vuota. I proprietari fanno fare dei controlli di sicurezza notturni, le guardie hanno visto la finestra rotta e sono andati a controllare.»
«Justine,» le disse Em con tono frustrato. «Di nuovo? Perché fai queste cose?»
Justine si strinse nelle spalle.
«Ciao, Em,» disse con un sorriso allegro.
L’agente Carter guardò Em accigliato.
«L’ha già fatto?» le chiese. «Non era nella sua fedina penale.»
Em annuì.
«Siamo riusciti a non farla entrare nel sistema finora… ha una… una specie di problema psicologico. Non lo fa con cattive intenzioni. È solo… una sorta di compulsione. È possibile in qualche modo… pagare la finestra rotta ed evitare di registrarla?»
«Non sembra che questo metodo abbia funzionato in passato.»
«Ha una malattia,» protestò Em. «Non potete punirla per qualcosa che non riesce a controllare!»
«Non ho niente che non va,» intervenne Justine. «Solo perché non voglio stare con te non vuol dire che ho qualcosa che non va!»
«Va da uno psicologo,» disse Em a Carter, alzando la voce per sovrastare quella di Justine. «Potete chiamarlo e parlarne con lui. Vi spiegherà che…»
«Signora, questa volta dobbiamo registrarlo,» disse Carter con voce ferma. «Non può continuare a tentare di proteggerla. Lasci che si prenda la responsabilità delle sue azioni e forse imparerà.»
Em arrossì di colpo.
«Per favore, non riesce a capire che stiamo cercando di aiutarla? Non si tratta di disciplina…»
«La ragazza infrange la legge. Arreca danni a proprietà altrui. La mia compassione per lei termina qui. Prende dei medicinali per questa “compulsione psicologica”?»
«Ehm… no. Abbiamo provato con dei farmaci in passato, ma non hanno funzionato. Ora stiamo tentando un approccio biochimico…»
«La dieta?» chiese scettico Carter. «E funziona?»
«Beh…» la voce di Em si spense, guardò disperata Justine.
«Possiamo andarcene da qui?» chiese Justine. «Sono stufa di starmene seduta.»
Em la guardò, poi guardò Carter.
«Ha preso i documenti al banco informazioni?» chiese Carter.
Em annuì mostrandoglieli.
«Ci troverà la data dell’udienza. Dica pure al giudice che la ragazza ha una malattia mentale. Magari la farà assolvere. Ma non ci conterei. La legge esiste per un motivo. Se non è in grado di rispettare la legge, allora forse dovrebbe stare in un istituto dal quale non può far male a nessuno.»
Justine spalancò la bocca. Chiuderla in un istituto? Si era presa una bella cotta per l’agente Carter e non avrebbe mai immaginato che perfino lui le si sarebbe rivoltato contro in quel modo.
«Non sono da rinchiudere in un istituto,» esclamò, la voce rotta dal turbamento. Le lacrime iniziarono a sgorgare.
«Chi fa irruzione in casa altrui viene messo dentro, in un modo o nell’altro,» disse Cart in tono piatto di indifferenza. «Se non vuoi andare in prigione, forse dovresti smettere di infrangere la legge.»
Justine lo fissò, la bocca aperta, in cerca di una risposta da dargli. Lui si chinò per aprirle le manette.
«Sono scappata,» disse Justine velocemente, tentando di riportarlo dalla sua parte prima che fosse troppo tardi. «Ha ragione, sono scappata, e non avevo un posto dove andare, allora… la finestra era già rotta e cercavo solo un posto dove passare la notte. Non volevo nemmeno rimanerci. Volevo solo un posto per dormire, dove nessuno potesse più farmi del male. Non mi mandi a casa con lei, mi picchierà!» Si finse in preda ad un attacco di panico, per rendere la storia più credibile. «Sono scappata per evitare queste cose. Mi rinchiuderà! Lei le ha detto che dovrei essere rinchiusa e lei mi incatenerà di nuovo nel seminterrato! Mi frusterà, e non mi darà da mangiare, e mi lascerà lì…»
«Basta così,» disse Carter. «Se fossi stata in fuga l’avresti detto quando ti abbiamo trovata nella casa. Ho avuto a che fare con un sacco di fuggitivi e di bambini vittime di abusi, e tu non sei una di loro. Se vuoi sporgere denuncia chiama il servizio di tutela minori. Puoi usare il telefono che c’è laggiù. Non farò alcun rapporto perché è chiaramente una balla.»
Le lacrime iniziarono a rigare il viso di Justine, e lei afferrò il braccio di Carter. Voleva rimanere lì, non voleva essere rimandata a casa con Em.
«Mi aiuti, per favore,» implorò.
«Fallo da sola,» disse lui indicando il telefono nero attaccato al muro. «Il numero è di fianco al telefono.»
Justine mollò la presa lasciandogli andare il braccio.
«Grazie, agente,» disse Em con un sospiro. «Forse ha ragione.»
Spinse delicatamente Justine verso la porta. Justine sobbalzò al contatto con Em e indietreggiò, ringhiandole contro.
«Non toccarmi!»
«Dai. Andiamo a casa.»
Justine la seguì attraverso la stanza piena di gente, aveva lo stomaco vuoto e tutti i muscoli in tensione. Uscirono e andarono verso l’auto di Em. Justine strappò lo skateboard e il resto dei suoi averi dalle mani di Em e salì in macchina.
«Cosa devo fare con te?» chiese Em. Justine non disse nulla, limitandosi a guardare fuori dal finestrino. «Magari ha ragione,» disse Em. «Forse devo solo lasciare che tu subisca le conseguenze delle tue azioni. Dovrei lasciare che ti mettano in prigione. Forse se facessi così capiresti come funziona il mondo.»
Justine guardò verso il cielo buio che sfrecciava fuori dal finestrino. Non c’erano stelle, la luce dei lampioni le impedivano di vedere bene il cielo. Riusciva ad intravedere solo la luna. Una volta lei e Christian erano andati a fare skate su una collina di un parco fuori città. Si erano distesi in cima, lontani dalle luci della città e avevano guardato le stelle. Justine non aveva mai visto così tante stelle.
«Non mi rispondi?» chiese Em. «Non hai niente da dire?»
Justine fissò il buio al di là delle luci.
Il mattino seguente, il dottor Morton fissava Justine in attesa che lei parlasse. Ma Justine andava da lui da anni e conosceva i suoi trucchetti. Gli adulti pensavano che stare zitti per un po’ ti avrebbe spinto a parlare per riempire il silenzio. Dicendo qualsiasi cosa. Ma lei era più furba. Ignorando il dottore, guardava fuori dalla finestra i piccioni allineati sul tetto dell’edificio accanto. Sembrava che stessero giocando ad un gioco. Uno di loro volava via dal davanzale atterrando praticamente sopra un altro. Quest’altro faceva poi la stessa cosa, andandosi a posare non su uno spazio vuoto, ma sopra un altro piccione. E questi faceva la stessa cosa. A volte il tema variava. Due uccelli si alzavano in volo allo stesso tempo, oppure l’ultimo della fila scivolava con le zampe cercando un posto per sé, uscendo dal gioco. Justine aveva l’impressione che gli uccelli fossero molto più intelligenti di quanto dicesse la maggior parte della gente.
«Allora…» finalmente il dottor Morton iniziò a parlare, rinunciando alla sua tattica. «Di cosa mi vuoi parlare?»
«Non sono qui perché voglio parlare con lei,» osservò Justine. «Sono qui perché Em mi ci ha portata. Se fosse per me preferirei essere a scuola.»
Il dottor Morton era un po’ più alto della media. Seduto in un angolo della sua scrivania, le lunghe gambe si estendevano davanti a lui. Era più vecchio di Em. Forse anche più del preside della scuola. Aveva i capelli grigi all’altezza delle tempie, ma aveva la testa piena di capelli o forse un parrucchino ben fatto. Sembrava come uno di quei dottori di Hollywood, pettinato e curato e dall’aria contenuta. Ma decisamente troppo vecchio per attirare l’interesse di Justine. Era probabilmente più vecchio di suo padre, se ne aveva uno.
«Hai avuto dei problemi negli ultimi tempi,» suggerì Morton.
«Non più del solito,» disse Justine scrollando le spalle con indifferenza.
«Ti sei fatta arrestare,» osservò lui. «È una cosa nuova.»
«No… il fatto che non sono riuscita a tirarmene fuori è una cosa nuova.» Justine scosse la testa ostentando noncuranza. «Quel ragazzino dell’agente Carter non ne ha voluto sapere di lasciarmela passare.»
«E perché pensi che sia andata così?»
«Forse non gli piacciono le ragazze,» suggerì Justine ridendo. Cercava di mantenere un’atmosfera rilassata per non arrivare a dover discutere la questione in maniera seria. Il dottor Morton non abbozzò nemmeno un sorriso.
«È così che la pensi?» le chiese, appuntandosi qualcosa sui fogli che teneva davanti.
«No. Secondo me è solo un rompiballe. Non sembrava all’inizio. Sembrava amichevole. Invece…» Justine scosse di nuovo il capo, «non sono riuscita a convincerlo. Era convinto che fossi una specie di criminale incallito che ha bisogno di imparare dai propri errori.»
«Non è forse così?» chiese il dottor Morton.
«Beh… sì, immagino di essere un criminale incallito,» ammise Justine.
«E non c’è bisogno che ti si faccia riconoscere i tuoi errori?»
«Non faccio del male a nessuno.»
«Hai fatto del male al proprietario di quella casa. Gli hai rotto una finestra.»
«E questo sarebbe avergli fatto del male? Em si è offerta di rimborsarlo.»
«Ma fa del male a tua madre, non credi?»
«Se mi fa lavorare per avere quei soldi allora l’unica persona che ci rimette sono io. Quindi a voi cosa interessa?»
«Non credo che tua madre si diverta a tentare ogni volta di non farti andare in prigione, a portarti al tribunale, portarti qui, o a farti lavorare per ripagare la finestra. Mi sembra che il semplice fatto che tu abbia deciso di fare irruzione in un’altra casa le stia richiedendo una quantità di lavoro esagerato.»
«A Em piace fare la parte del martire. È contenta se ha qualcosa per cui lamentarsi, così la gente la compatisce.» Justine simulò un tono drammatico. «Povera Emily e tutti i guai che le fa passare quella sua figlia ribelle. È davvero terribile. Dev’essere una santa per sopportare tutte quelle stronzate.»
Justine sorrise, fiera della sua performance. Morton alzò un sopracciglio.
«Pensi che le cose stiano così?»
«Certo. Lo sa anche lei quanto la fa lunga quando mi comporto male. Esagera sempre e si inventa le cose. Le sto facendo un favore dandole qualcosa di cui parlare.»
«Mm.» Morton era silenzioso, si appuntò qualcosa. Dopo un po’ rialzò lo sguardo. «Come ti sentivi prima di aver fatto irruzione nella casa?»
«Non ho fatto irruzione, il vetro era già rotto.»
«Non stiamo a mettere i puntini sulle i.»
«Non sto mettendo i puntini sulle i,» disse Justine con un sorriso beffardo.
«Justine,» la rimproverò Morton con fermezza. «Smettila. Rispondi alla domanda.»
«Non lo so. Mi sentivo… arrabbiata perché Em mi aveva messa in punizione.» Alzò lo sguardo verso Morton, facendo fatica a trovare qualcosa da dire. I suoi sentimenti le apparivano sempre confusi. Non riusciva mai a identificarli interamente. «Va bene come risposta?»
«La risposta che mi aspetto è la verità. Questa è la verità?»
«Non saprei. Mi divertivo con lo skate. Mi sono presa un trancio di pizza per cena. Andava tutto bene. Non so come mi sentivo.»
«Pizza?» chiese Morton aggrottando la fronte. «Pensavo ti stessi disintossicando.»
«Certo,» disse Justine. «Pensa davvero che Em mi avrebbe dato un pizza vera, tutta unta e piena zeppa di glutine e formaggio e prodotti animali e roba così?» Justine fece una pausa per bagnarsi le labbra, pensando a quello che stava per dire. «No, questa era roba che ha preso al negozio di prodotti organici. Senza tossine e OGM e roba del genere. Non la chiamerei proprio pizza. Era abbastanza buona… ma sembrava fatta di cartone.»
Lui annuì in approvazione.
«Bene. Ti ci abituerai. Il tuo corpo starà molto meglio e tu ti sentirai più energetica.»
«Sì,» Justine si ritrovò a scuotere leggermente il capo senza volerlo. «Mi sembra già di avere le idee più chiare.» Sorrise.
Lui annuì lentamente.
«Ma questo incidente è allarmante. Vorrei capire da cosa deriva questo impulso di irrompere nelle case altrui. Cosa ti succede, cosa ti porta ad agire in questo modo anche se sai che è sbagliato e che finirai per metterti nei guai?»
«Se sapessi rispondere lei non avrebbe un lavoro.»
Morton ridacchiò con apprezzamento.
«Probabilmente è vero. Cerchiamo di andare a fondo e vedere se riusciamo a venirne a capo. Le prime volte che l’hai fatto pensavo si trattasse di semplice curiosità o di ribellione. Ma sembra esserci di più. Porti avanti questo tipo di comportamento da molto tempo ormai. Cosa pensi che ti stia succedendo?»
Justine alzò gli occhi.
«Senta, credo di volere semplicemente vivere per conto mio. Essere indipendente e non dover vivere con Em, okay? Tutto qui.»
«Questa è solo una copertura.»
Justine si agitò seduta al suo posto. La conosceva da troppo tempo, erano anni che le analizzava il cervello. Non avrebbe accettato una risposta semplice. Non avrebbe dato per buona la prima scusa che lei avesse trovato. Justine era troppo ribelle, troppo sicura di sé perché lui se la bevesse. Per trovare la verità bisognava scavare più a fondo. Bisognava lavorarci tanto e andare avanti per anni. Altrimenti non le avrebbe mai creduto.
«Perché?» lo sfidò comunque Justine, prendendo tempo per trovare una risposta migliore.
«Perché sai di non poterci rimanere. Sai di non potertene andare via dalla casa di Em e vivere da sola in una casa abbandonata. Sai bene che i proprietari o la polizia si farebbero vivi prima o poi facendoti sloggiare. Di sicuro provi piacere a liberarti di Em e occuparti di te stessa. È probabile che ami sentirti emancipata o scappare. Ma non si tratta di un comportamento di una persona in fuga. È… non so come dire,» meditò. «Si tratta di qualcos’altro. Come ti senti quando entri in una di queste case?»
«Non lo so. Mi sento… al sicuro,» Justine cercò una parola che si addicesse meglio alla sensazione, ma non ne trovò. «Non so.»
«Sicura in che senso?»
Justine alzò le sopracciglia e scrollò le spalle.
«Semplicemente sicura. A casa. Come se appartenessi a quel posto.»
«A quale altro posto senti di appartenere?» chiese il dottor Morton, facendo scattare la penna contro i denti anteriori per qualche istante, per poi aggiungere qualcosa ai suoi appunti. «Parlami di questa sensazione.»
«Non appartengo a nessun posto,» disse Justine, scuotendo testardamente la testa. «Non sono al mio posto con Em. E nemmeno a scuola. Non ho amici. Non ho niente. Ma mi piace… mi piace starmene in una casa mia.»
«Tranne per il fatto che non si tratta di casa tua. Non è nemmeno una casa confortevole. È una casa abbandonata.»
«E allora? È il posto dove mi sento meglio,» disse Justine. «Il resto lo posso immaginare.»
Morton chiuse gli occhi e inclinò la sedia all’indietro.
«Cos’è che immagini? È sempre la stessa immagine? La stanza è la stessa, con gli stessi mobili? O varia a seconda della casa?»
Justine esitò. Un minuto dopo Morton aprì gli occhi e la guardò.
«Forza, Justine. Chiudi gli occhi e descrivimela. Aiutami a capire cosa vedi e cosa senti.»
Justine tornò a guardare i piccioni fuori dalla finestra. Dove dormivano? Dormivano lì sul tetto o avevano dei nidi su un albero o sopra una chiesa? Se ne stavano sempre nello stormo o era solo un caso che fossero tutti lì nello stesso posto? Erano una famiglia o semplicemente estranei che giocavano al gioco “butta giù l’ultimo uccello della fila”?
«Non so,» disse finalmente Justine, senza chiudere gli occhi, ma cercando di visualizzare l’immagine di fronte a lei. Era offuscata, senza una vera e propria forma. Non era come trovarsi lì, nella stanza in cui aveva la visione. «È… scura… i mobili sono grandi, vecchi. Il tappeto… è un po’ rovinato. È marrone scuro. Mi ricorda un cane gigante che ti fa distendere sopra di lui e usarlo come cuscino. A volte c’è rumore… voci di persone che parlano lontano… rumori normali di gente che vive la propria vita.»
«Ci sono fotografie alle pareti?» chiese Morton. «C’è qualcun altro?»
A volte c’era Monica, pensò Justine. A volte, ma non sempre. Katie era sempre lì. Le facevano compagnia. Non era mai sola. Ma non c’erano adulti a farle del male o a dirle cosa fare. Ma era molto tempo che non parlava al dottor Morton di Monica e Katie. Lui pensava che non ci fossero più.
«Non c’è nessun altro,» mentì. «Solo io. Foto… non so se ce ne sono. Sono troppo in alto per vederle.»
«Mmm,» Morton annuì lentamente. «Interessante. E cosa ti piacerebbe fare lì? Cosa faresti per divertirti o tenerti impegnata? Ci sono giochi, libri, un televisore?»
«C’è una TV, ma non mi interessa. Di solito dormo e basta.»
In quel momento chiuse gli occhi, visualizzandola. Immaginando la pace dello starsene lì da sola, assopita al suono ronzante del televisore, la guancia sprofondata nel vecchio tappeto arruffato.
Em alzò lo sguardo sul dottor Morton quando lo vide uscire dal suo studio e chiudere piano la porta dietro di sé.
«Va tutto bene?» chiese subito preoccupata. Solitamente non lasciava Justine da sola e non aveva mai bisogno di parlare con Em in privato. Di solito significava che c’era qualcosa di grave.
«Va tutto bene,» la rassicurò lui, sorridendo. «Non si agiti, la prego. Credo che abbiamo fatto dei progressi oggi.»
«Davvero? Fantastico.»
«Si è addormentata,» disse lui, facendo un cenno col capo verso la porta chiusa.
«Addormentata? Perché? Beh, ha passato una nottataccia con la storia della polizia…»
«Credo si tratti di un tentativo di fuga dalla realtà o di auto-ipnosi. Una sorta di dissociazione.»
«Non sembra una cosa positiva.»
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi, a dire il vero. Penso che stiamo per arrivare a comprendere la base dei suoi problemi psicologici.»
Em si morse le labbra, strizzando gli occhi.
«Pensavo che lei credesse che il motivo fosse il fatto che si era ammalata da bambina. Non ha mai davvero legato con me perché era in ospedale, e questo ha causato i problemi comportamentali.»
«Quella è una teoria… ma è sempre stata una supposizione, perché di solito il disturbo dell’attaccamento si verifica a causa di un’esperienza traumatica o una separazione prolungata del genitore o un periodo di trascuratezza. Lei mi ha detto che la ragazza non ha passato tanto tempo in ospedale, e che quando era ricoverata lei era sempre lì accanto a lei. Non era in isolamento e lei è stata in grado di starle vicino e mantenere il legame.»
Em scrollò le spalle, impotente.
«Ma lei pensava che potesse trattarsi di questo.»
«Ci sono state altre occasione nelle quali Justine ha dovuto passare un periodo lontana da lei?» la spronò.
Em scosse il capo.
«Mi parli del luogo in cui vivevate quando lei era più piccola.»
«Cosa intende?»
«La casa in cui abitavate. Mi descriva le stanze e l’arredamento.»
«Abbiamo sempre vissuto qui, nella stessa casa.»
«Mai in un’altra casa?»
«No.»
«Non è nemmeno mai stata a casa di qualcun altro, una zia, una sorella, una persona qualsiasi, mentre lei doveva andare da qualche parte?» insistette lui.
«No,» Em scosse il capo.
«Solo in ospedale.»
«E si è trattato solo di un paio di settimane, e io ero sempre lì a prendermi cura di lei.»
Il dottor Morton sospirò.
«Continua ad eludermi,» disse con un sospiro.
«Deve stare qui ancora a lungo?» chiese Em, gettando un’occhiata al suo orologio.
«No. La faccio uscire dallo stato dissociativo e continuo con la sessione. Non dovremmo metterci ancora tanto. È solo che… non ha alcun senso. Non credo mi stia mentendo, ma quello che dice non è credibile. Non ha per niente senso.»
Em annuì mostrando comprensione.
«Lo so… la aiuterei se potessi.»
I hope you enjoyed this sample of
Sola al Mondo
By P.D. Workman