Non Dimenticate Steven

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Capitolo 1

Steven restò fuori un momento prima di entrare. La casa era tranquilla, niente urla, né musica alta o TV a tutto volume che si sentiva da fuori. La moto di Jack e la macchina di Russ erano entrambe parcheggiate nel vialetto, quantomeno erano a casa. Cominciava a far buio fuori e Steven si trovò di fronte il suo riflesso nel vetro della porta prima di aprirla. Era alto per la sua età, troppo magro, un cespuglio di capelli neri un po’ troppo lunghi e indisciplinati e occhi scuri che a volte lo coglievano di sorpresa per la loro intensità quando si guardava di sfuggita. Steven respirò lentamente, in modo deciso aprì la porta ed entrò.

Non importava che entrasse dalla porta principale o da quella sul retro, e lui usava sempre il retro, doveva attraversare il soggiorno per raggiungere l’ingresso delle camere da letto, il che significava che era sempre esposto per qualche secondo almeno, mentre costeggiava il soggiorno prima che potesse raggiungere la sicurezza della sua stanza. Steven camminava silenziosamente sul pavimento appiccicoso della cucina nelle sue logore scarpe da ginnastica, scrutando nervosamente il soggiorno. Il bagliore del televisore riempiva la stanza con una luce tremolante e bluastra e una musica drammatica. Non si trattava di un film violento o aggressivo, era qualcosa di più tranquillo, probabilmente una specie di porno. Non poteva vedere la sedia di Russ dalla cucina, ma poteva vedere Jack sul divano, impegnato a pomiciare con una ragazza. Quello era un buon segno. Se entrambi avevano la ragazza, probabilmente avrebbero lasciato in pace Steven. Il profumo scadente della ragazza scivolò fino in cucina, facendogli venir voglia di vomitare.

Steven deglutì e abbassò gli occhi sulle sue scarpe bucate e consumate mentre camminava svelto attraverso la stanza. Sperava che se i loro sguardi non si fossero incontrati, non avrebbe attirato l’attenzione, sarebbe rimasto discreto. Sperava soltanto che avrebbero continuato quello che stavano facendo, lasciandolo da solo.

Aveva funzionato. Non sapeva mai quando avrebbe funzionato e quando la stanza sarebbe esplosa attorno a lui. Entrò in punta di piedi nella sua stanza e chiuse la porta con un morbido click. 

Steven respirò e scaricò i libri di scuola sul letto, sentiva battere il suo cuore. Si diresse verso il comò, aprì un cassetto e tastò in fondo la bottiglia sotto le camicie. Svitò il tappo e si distese sul letto, strappando un tascabile dai libri e chiudendo fuori il resto del mondo.

Leo rimase a guardare la porta di Steven in attesa che uscisse. Era in ritardo, come al solito. Quando il ragazzo alto e magro finalmente si trascinò fuori, erano già in ritardo di mezz’ora per la scuola. Steven aveva degli occhiali scuri e i libri sotto al braccio.

“Ehi,” lo salutò a stento.

“Ehi, Stevie. Che c’è?” chiese Leo, scuotendo i capelli, più lunghi e più chiari di quelli di Steven.

“Niente,” disse Steven alzando le spalle. “Come va?”

“Bene, a parte il fatto che sei di nuovo in ritardo,” gli fece notare Leo.

Toccò gli occhiali da sole di Steven spingendoli verso il basso in modo da vedere i suoi occhi. La luce del sole fece strizzare gli occhi a Steven che si riparò con la mano. “Ehi, Leo!”

Leo annuì. “Postumi di una sbornia, vero?”

Steven fece spallucce. “Sì, credo,” concordò dolorosamente, tirando nuovamente su gli occhiali.

“Faremmo meglio ad andare a scuola.”

Steven annuì e s’incamminarono.

Steven si trascinò dentro l’aula di scienze e crollò sul banco. Il professor Bennett interruppe la sua lezione e guardò Steven sedersi.

“Sei in ritardo, McCoy” gli fece notare. 

“Lo so,” concordò Steven, mettendo i libri per terra.

“La lezione è quasi finita. Hai una giustificazione?” chiese.

“No.” Quando mai aveva portato una giustificazione da casa?

“Perché sei in ritardo?” chiese Bennett, con una nota di frustrazione nella voce.

“Ho dormito fino a tardi,” disse Steven piattamente.

C’erano risatine per tutta l’aula. A Steven non importava cosa pensavano di lui gli altri studenti. Potevano ridere di tutto quello che gli pareva.

“Sei arrivato in ritardo a questa lezione troppe volte,” continuò Bennett. “Hai mai pensato di lasciar perdere?”

Steven fece spallucce.

“Parlerò con te più tardi,” disse Bennett, scuotendo la testa e tornando dietro la cattedra per continuare la lezione.

Steven mise la testa tra le braccia, piegato sulla scrivania. Chiuse gli occhi e ascoltò l’insegnate dilungarsi.

La campana lo fece trasalire dal suo pisolino troppo presto. Si mise a sedere, si stiracchiò. Guardò il signor Bennett per capire se sarebbe stato trattenuto dopo la lezione. Bennett era occupato a cancellare la lavagna, non prestava attenzione a Steven che raccolse i libri e andò alla lezione successiva.

L’aria della mensa era densa dell’odore di grasso e del brusio di un centinaio di conversazioni. Steven era seduto in uno dei tavoli lunghi, in disparte, i gomiti sul tavolo; il panino tra le mani stava chiaramente attirando la sua completa attenzione. Sasha si avvicinò e si sedette di fronte a lui posando i libri.

“Ciao Stevie.”

Steven guardò la faccia allegra da folletto di Sasha, incorniciata dai capelli rossi lunghi fino alle spalle. “Ehi, Sash,” la salutò con la bocca piena.

“Che servono oggi?”

Steven alzò le spalle dando un altro morso al panino. Sasha lo guardò mangiare per un minuto, la sua mascella lavorava alacremente, i suoi occhi azzurri e luminosi brillavano.

“Ti basterà?” chiese lei.

“Deve bastare,” precisò Steven. Sasha sapeva che non aveva soldi per comprare qualcos’altro, non aveva cibo da portarsi da casa. Il programma di refezione della scuola forniva solo razioni limitate e non comprendeva nessuno dei pasti caldi che la mensa preparava, di cui gli odori restavano fastidiosamente nell’aria.

“Vado io a prenderti qualcosa, se vuoi,” si offrì Sasha.

“Come vuoi,” Steven acconsentì con una scrollata di spalle. 

Non era molto orgoglioso di prendere del cibo da un amico. Dopotutto, il pranzo era spesso l’unico pasto che mangiava in tutta la giornata. Sasha annuì e si avvicinò al bancone.

Un ragazzo biondo, con la faccia larga e rosea era seduto lì accanto, Steven non lo conosceva. Il ragazzo lo esaminò, prendendosi gioco di lui. “Lasci che la tua ragazza ti compri il pranzo?” chiese arricciando le labbra.

Steven fu sorpreso dall’interruzione. Esaminò il ragazzo, squadrandolo. Il ragazzo non era particolarmente grosso o ben piazzato. Steven sapeva che i ragazzi magri e asciutti potevano essere forti, come Russ, ma lui sembrava debole.

“Proprio così,” concordò Steven con voce piatta e controllata.

“Non hai alcun orgoglio?”

“No.”

“Patetico.”

Steven mise in bocca l’ultimo boccone di panino e si alzò. Attorcigliò le dita tra i capelli biondi e arruffati del ragazzo e con forza lo mise in piedi. “Hai finito?”

Il ragazzo lottava, ma finiva solo col farsi ancora più male. “Lasciami andare!” insisteva.

“Non credo proprio,” disse Steven con calma. “Non mi piaci.”

“Dai, amico! Stavo solo scherzando!” protestò, soffocando una debole risata.

Steven strattonò a scatti la testa del ragazzo. “Non ho senso dell’umorismo. Capito?” domandò cercando di mantenere la voce bassa e uniforme.

“Sì, scusa amico, lasciami andare!” squittì il ragazzo.

Steven lasciò lentamente la presa. L’altro reagì, poi si precipitò in avanti oscillando. Steven si guardò intorno mentre restava immobile e tratteneva la furia. Il suo istinto si era rivelato giusto, il preside stava entrando nella stanza. Era leggermente sovrappeso, un po’ calvo e indossava un completo marrone apparentemente scomodo e che proprio non gli donava. Steven guardò l’altro ragazzo.

“Perché non ti arrendi?”

“Sei anche vigliacco?” lo derise il ragazzo, la sua faccia rosa ora era rossa di rabbia.

Steven trattenne un altro pugno. Il ragazzo gli girava attorno più vicino.

“Dai, combatti! Sei una femminuccia, pappamolle?” lo scherniva freneticamente. “La tua ragazza si batte anche per te?”

Steven indietreggiò. Il ragazzo stava per saltargli addosso quando il preside mise una mano sulla sua spalla per fermarlo. 

“Hai ingaggiato qualcun altro per combattere al posto tuo!” disse il ragazzo incredulo. Si irrigidì e si voltò per combattere, vide chi era e abbassò i pugni, il colore defluì dalla sua faccia.

“Penso che tu abbia appena vinto una sospensione,” annunciò con tono grave il preside. “Va nel mio ufficio, ti raggiungo fra poco.”

Il ragazzo guardò di nuovo Steven. “Non finisce qui,” mettendolo in guardia.

Steven annuì. L’altro ragazzo uscì infuriato dalla mensa. Il preside studiava Steven, e poteva sentire l’odore stantio di sigaretta sui suoi vestiti. “Di nuovo nei guai, McCoy.”

“Non stavo facendo a pugni. Lui sì,” precisò Steven.

“Forse questa volta, perché mi hai visto arrivare.”

Steven alzò le sopracciglia e si sedette al tavolo a mangiare gli avanzi del pranzo dell’altro ragazzo. “Quindi, che ho fatto?” chiese.

“Ho sentito che sei arrivato di nuovo in ritardo oggi.”

“Che altro c’è di nuovo?” Steven prese il panino e gli diede un grosso morso.

“Non farai niente di buono qui se sei sempre in ritardo. So che sto parlando da solo, ma vorrei poter fare qualcosa per convincerti dell’importanza della scuola” disse il preside con tono serio.

“Vengo, no?” replicò Steven.

“Forse sì,” ammise il preside. “Ma non sono sicuro del perché. Non credo tu stia imparando niente. Devi fare molto di più che venire a scuola per prendere il diploma.”

“Mi sta sospendendo?” chiese Steven.

“Non questa volta,” sospirò l’uomo.

“Mi sta espellendo?” insistette Steven rilanciando.

“Sai che non potrei farlo senza una buona ragione.”

“Allora, se non le dispiace,” disse Steven con tono irritato, “vorrei mangiare il mio pranzo così arriverò puntuale alla mia prossima lezione.”

L’uomo lo guardò in silenzio per un momento. Steven era impassibile, mangiando avidamente il panino. Il preside si girò per andarsene.

“Ti tengo d’occhio, McCoy,” lo avvertì.

“La tengo d’occhi anche io,” disse Steven ironicamente.

Il preside sorrise sarcasticamente, scosse la testa e s’incamminò verso l’ufficio.

Steven stava ancora facendo fuori le patate fritte dell’altro ragazzo quando Sasha tornò.

“Cos’era tutta quell’agitazione?” chiese con un sorriso a trentadue denti. “Che hai fatto per far andare Potter fuori di testa?

“Si chiama così?” disse Steven con distrattamente. 

“Già, non sapevi nemmeno chi fosse?” disse incredula.

“Certo, ha detto: ‘Ciao, sono Potter, e ti sto per spaccare la faccia’.”

“Va bene, okay. Ho dato per scontato che vi conosceste, ecco tutto. Di solito non faccio a pugni con le persone che non conosco.”

“Già, be’, io faccio a pugni praticamente con tutti,” rispose Steven. “È un tipo apposto, visto che lo consoci bene?”

“Non lo conosco,” chiarì Sasha. “So solo il suo nome. È un tipo abbastanza duro, immagino, ed ha un sacco di amici.”

“Be’, anche io ho degli amici,” disse Steven, sebbene la sua cerchia di amici era abbastanza ristretta a Leo e Sasha. E Sasha non era una che faceva a botte.

Sasha porse a Steven una mela e una ciotola di zuppa. “Qualcosa di buono per te.”

“Grazie,” disse, prendendoli immediatamente.

Sasha si sedette. Si chinò più vicino a lui e gli prese la mano. Steven si ritrasse dal suo tocco. Sasha tolse lentamente la mano, osservandolo.

“Sai, sono davvero preoccupata per te ultimamente…” iniziò, poi si fermò mordendosi il labbro e guardandosi le mani sottili. 

“Perché?” chiese Steven, scuotendo la testa. Tolse il coperchio del contenitore di polistirolo e inspirò avidamente il profumo dolce e piccante.

“Be’, sai… la situazione a casa, e il tuo bere così tanto…” s’interruppe grattando un pezzo di cibo pietrificato attaccato al tavolo.

Steven si guardò intorno e si chinò verso di lei. “Sasha! Non c’è bisogno di renderlo pubblico!” protestò con un brontolio a voce bassa.

“Ma sono preoccupata,” insistette Sasha, guardandolo negli occhi. Steven guardò la zuppa, mangiandola a cucchiaiate più veloce che poteva senza scottarsi. 

“Non è cambiato niente,” disse. “Perché parlarne adesso?”

“È sempre peggio.”

“Non è così male,” la rassicurò.

“Invece sì. Ho paura che un giorno verrò a scuola e tu non ci sarai. Mai più.”

“Non succederà.”

Le sue orecchie erano in fiamme e continuava a fissare intensamente la zuppa.

“Anche Leo è preoccupato,” aggiunse Sasha.

“Niente preoccupa Leo,” disse Steven sprezzante.

“Tu sì. Ogni volta che ti aspetta all’angolo e tu sei in ritardo—”

“Finiscila,” insistette Steven , guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando. Ma Sasha ebbe un impeto e continuò.

“Abbiamo sempre paura che tu sia in ospedale, o a casa privo di sensi o svenuto—”

“Sasha,” disse, con voce molto bassa ma intensa. “Piantala.”

Sasha smise di parlare. Steven continuò a mangiare. Alzò lo sguardo verso il suo viso dopo qualche minuto di silenzio. Il suo solito sorriso scherzoso non c’era più, gli occhi erano tristi. 

“Che cosa vi aspettate che faccia?” chiese irritato. “Che scappi di casa? Come può la vita per strada essere migliore? Cosa ti aspetti che faccia?”

“Parla con qualcuno,” suggerì Sasha. “Un professionista. E smettila di bere.”

“Vedere uno strizzacervelli o un assistente sociale e restare a secco. Già, questo sì che migliorerà la mia vita.” Rise amaramente. Steven si allontanò dal tavolo, la zuppa era finita. Afferrò la mela pronto ad andarsene. “La mia vita è un casino, ma non c’è modo di sistemarla.”

Sasha era silenziosa, le lacrime agli occhi. Steven la guardò, inclinò leggermente la testa graffiando la base del cranio. “Senti, so che stai solo cercando di essere d’aiuto, Sash, ma credimi, se potessi fare qualcosa per migliorare la situazione, lo farei. Ma io sono più o meno una causa persa, quindi non parliamone più.”

Sasha sospirò. “Non sei una causa persa.” Insistette.

Steven si alzò dal tavolo.

Steven era indeciso se passare più tempo con Leo o tornare a casa. Odiava dover lasciare i suoi amici così presto, ma sapeva anche che se fosse tornato a casa troppo tardi non ci sarebbe stato modo di evitare le conseguenze. Se fosse tornato a casa in tempo, almeno sarebbe potuto andare in camera sua a bersi la serata in solitudine. Non gli piaceva bere davanti ai suoi amici – soprattutto dopo la breve lezione di Sasha. Leo lo colse di nuovo a guardare l’orologio del centro commerciale, e sconsigliò di andare a casa.

“Dai, amico. Puoi restare a dormire da me,” lo invitò Leo. “O da Sasha,” disse, dandogli una gomitata maliziosa e incoraggiando il suo nome alzando le sopracciglia. “Non c’è bisogno che torni a casa stasera.”

“No…” protestò Steven. “Devo andare a casa.”

“Quanto durerà ancora la tua fortuna?” chiese Leo alzando le mani. “Resta da uno di noi questa volta.”

“Non posso, Leo. Ho un sacco di compiti da fare stasera,” Steven guardò l’orologio. “Devo tornare a casa.”

“È la tua vita,” sospirò Leo, arrendendosi.

La mia vita incasinata, ammise Steven nella sua testa, ma non lo disse a voce alta.

“Va bene… ci vediamo domani.”

Le auto di tutti erano in strada o davanti la casa. Steven guardò il cielo striato d’arancio e le ombre crescenti, un nodo stretto allo stomaco. 

I quattro uomini erano in soggiorno. Nessuna ragazza questa volta, parecchie lattine vuote e schiacciate sparse per il pavimento e l’odore stantio di sudore e birra che impregnava la casa. Dix era seduto di traverso su una sedia, le gambe avvolte dalle braccia. Il suo sguardo vagava lontano dalla TV. Fu il primo a vedere Steven che faceva capolino da dietro la porta. Fece a Steven un mezzo sorriso divertito. Dix aveva capelli neri, corti con un taglio punk, un pizzico di barba incolta, e occhi azzurri come il cielo. Steven si chiedeva spesso a cosa pensasse. Dix era il più giovane, più vicino a Steven di età rispetto agli altri, ma Steven non poteva dire quando stava per essere decente con lui o quando si sarebbe unito agli altri negli abusi. A volte gli occhi di Dix erano lontani, distanti, come se stesse sognando qualcosa che nessun altro poteva vedere.

Accanto a Dix c’era Jack. Solo guardandolo Steven aveva dovuto ingoiare la sua paura, un grosso grumo gli bruciava in gola. Jack era quasi tanto cattivo quanto Russ. Era sempre di buon umore, rideva di tutto; quella risata beffarda e crudele, come se la cosa più divertente del mondo fosse qualcuno che si faceva male. I suoi erano occhi scuri, feroci e crudeli, increspati fino agli angoli dalle rughe d’espressione, una sigaretta appesa fuori dalla bocca, i bei capelli ondulati spazzolati da un lato come uno di quei rubacuori sulle copertine dei romanzi rosa. Ma nessuno ha mai scambiato il suo allegro comportamento per un buon carattere. Era come guardare un diavolo che ride. La sua barba era più fitta di quella di Dix, correva lungo la linea del mento con le guance rasate.

Steven riusciva a malapena a vedere Mitch. Lui era un po’ diverso dagli altri. Era più flemmatico, non così forte. Era sia vigile che spericolato, una strana combinazione di imbroglio e sprezzante audacia. Sembrava non si fosse fatto la barba per diversi giorni. I suoi capelli erano abilmente disordinati; probabilmente aveva passato un’ora a cercare di far sembrare che non gli importasse di come gli stessero. Quando Mitch sorrideva in maniera inviante, ammiccando con i suoi occhi maliziosi e scuri… ogni ragazza nella stanza sveniva. Anche Mitch notò Steven, ma non sorrise come Dix. Si limitò ad alzare la sua lattina di birra e bevve un sorso, guardando Steven pensieroso.

Steven non riusciva a vedere Russ da dove si trovava. Era proprio dietro l’angolo, fuori dal campo visivo, ma riusciva a percepire la sua presenza e poteva sentirlo quando lanciava un commento alla TV o a uno degli altri ragazzi. Steven poteva vedere la faccia di Russ nella sua testa. Un viso lungo e magro, senza sorriso, il mento appuntito e delle occhiaie come se non dormisse o mangiasse; l’aspetto sciupato. Nonostante la sua corporatura esile, era atletico e incredibilmente forte. Steven sapeva che Russ era il più forte, il più cattivo di tutti. I suoi occhi erano verdi, ma non era bello, sapevi dal primo momento che lo vedevi che era malvagità allo stato puro. Genuinità, malizia e depravazione.

Steven fece un respiro profondo, deglutì e cerco di rendersi invisibile come se si trascinasse attraverso la stanza verso il retro della casa. Mitch gettò la sua lattina di birra mezza piena nella direzione di Steven, colpendolo alla spalla e spruzzandogli in faccia la birra.

“Dove credi di andare così in fretta?” domandò.

“Solo nella mia stanza,” disse Steven, cercando di proseguire.

“Non credo proprio. Passi un po’ troppo tempo tutto solo in quella stanza.”

“Devo fare i compiti,” protestò Steven mostrandogli i libri.

“Chi pensi di prendere in giro? Chi di voi pensa che il piccolo Stevie faccia i compiti quando torna a casa?”

Ci furono commenti di scherno.

“Vieni, allietaci con la tua compagnia,” incoraggiò Dix. “Su, non ti vediamo più ormai, ragazzino. Abbiamo preso dei video stasera.”

Steven cercò di ingoiare il groppo in gola. Studiò disperato i loro volti in cerca di piccoli indicatori del loro umore. Sapeva di sfidare la sorte rifiutando, ma probabilmente entro la fine del film sarebbero stati talmente ubriachi che l’avrebbero picchiato anche se avesse fatto quello che chiedevano.

“Se non vieni subito qui e ti godi questi film con noi…” iniziò Russ con voce bassa e minacciosa.

Russ spaventava Steven più di tutti gli altri messi assieme. La sua voce mandava una scarica elettrica lungo Steven, spronandolo ad agire.

“Mi limiterò a mettere via i libri”, disse in fretta, dirigendosi di nuovo verso la sua stanza.

Se fosse riuscito a entrarci, chiudere la porta e spingere il comò e il letto in modo da… Steven sentì uno di loro alzarsi e fece una corsa disperata verso la sicurezza della sua stanza. Una mano si chiuse attorno al colletto della giacca, tirandolo con forza e fermandolo con uno strattone che lo fece soffocare, poi lo trattenne. Steven non cercò di reagire.

“Sto solo mettendo via i libri,” disse ragionevole, cercando di nascondere il suo respiro pesante.

“Pensi di essere migliore di noi?” disse Jack con voce rauca e stridula. Si mise a ridere. “Pensi di avere compagnia migliore? Sei feccia, ragazzino. Sei feccia di fogna, proprio come noi. Ora porta di là il tuo culo dispiaciuto, o ti frusto all’istante!”

Il cuore di Steven batteva velocemente. Non riusciva a riprendere fiato.

“Mi dispiace,” si scusò con voce rotta. “Stavo tornando.”

Jack spinse via i libri dal suo braccio facendoli cadere a terra nel corridoio. Improvvisamente diede uno schiaffo a Steven. Bruciava, come la faccia di Steven per l’umiliazione.

“Va a goderti il film,” scherzò Jack.

Steven camminava davanti a lui; era di nuovo in soggiorno. Gli altri fecero un gran sorriso quando lo videro tornare come un cane bastonato.

“Ehi, piccolo Stevie. Sei tornato per goderti il film con noi, eh?” lo provocò Dix.

“Già,” concordò Steven, lasciandosi cadere imbronciato nella vecchia sedia ammuffita. Avevano su uno di quei film, e Steven riusciva persino a vedere lo schermo. Quello che stavano vedendo era uno snuff film, grazie a qualche occhiata, e quello vicino al piede era un porno XXX. Prese una delle lattine di birra e l’aprì. Se stava per inquinare la sua mente con quella spazzatura, tanto valeva inquinare anche il suo corpo. Magari sarebbe stato abbastanza ubriaco da rifiutare, e per quando i video sarebbero finiti, forse sarebbe stato abbastanza ubriaco da non sentire nulla.

Capitolo 2

Leo aspettò all’angolo fino a quando capì che avrebbe fatto tardi per il secondo ciclo di lezioni, prima di rinunciare al fatto che Steven non si sarebbe unito a lui e sarebbe andato a scuola da solo. Andò alla sua lezione e qualche minuto dopo Sasha era sulla soglia, guardandolo con aria interrogativa. Leo strinse le spalle e scosse ampiamente la testa. Lei aggrottò la fronte, si mise i capelli rossi di lato, scoprendo il viso, e si allontanò.

Sasha saltò la lezione successiva e si diresse verso casa di Steven. C’erano un paio di macchine nel vialetto, quindi sapeva che i ragazzi dovevano essere a casa. Andò sul retro e si diede una spinta sulla recinzione per sbirciare nella finestra di Steven. Non riusciva a vederlo. Il letto all’angolo era vuoto. Andò alla porta sul retro e provò la maniglia. Era sbloccata. Sasha aprì la porta più silenziosamente che poteva e si bloccò, in ascolto.

In casa c’era un silenzio tombale. Sasha entrò e chiuse silenziosamente la porta dietro di lei. Attraversò la cucina in punta di piedi e si fermò all’ingresso del soggiorno per permettere ai suoi occhi di abituarsi alla penombra. C’erano tende oscuranti alle finestre, quindi anche in pieno giorno la stanza era buia. Steven era lì, ma c’erano anche due degli altri ragazzi. Dix e Jack. Sasha fece il giro dall’altro lato della stanza sapendo che il pavimento cigolava terribilmente al centro. Stava sopra Steven esaminando il danno.

Il volto di Steven era proprio gonfio – niente d’insolito per lui. Poteva avere una commozione cerebrale. C’erano contusioni anche sul collo. Una presa di sottomissione o alla gola per sopraffarlo. La sua camicia si era tirata su mentre cambiava posizione nel sonno, e Sasha osservò le costole, sporgenti come uno steccato. Non c’era un filo di grasso sul corpo di Steven. Nessuna costola era rotta, ovviamente. Nel complesso Steven non sembrava stare troppo male, dopotutto. Sasha gli abbassò dolcemente la camicia.

“Stevie,” sussurrò, prendendogli la mano. Guardò gli altri chiedendosi quanto avessero bevuto, quanto stessero dormendo profondamente. Lo stesso valeva per Steven. Sperava solo di riuscire a farlo alzare senza svegliare gli altri. “Dai, Stevie,” bisbigliò, “svegliati, ti prego.”

Quasi non si mosse. Sasha lo punzecchiò sul fianco.

“Stevie, ti prego.”

Gli diede un colpetto più forte e lui improvvisamente, colto di sorpresa, fece un salto indietro, rabbrividendo e tirando indietro la mano dalla sua presa per proteggersi la faccia.

“Sono Sasha,” sussurrò, “va tutto bene.”

Steven non era ancora del tutto sveglio, le mani chiuse convulsivamente a pugno, la faccia contorta in una smorfia.

“Sono Sasha, Stevie. Va tutto bene. Svegliati. Dai, Steven.”

Steven aprì finalmente gli occhi e la vide. Si raddrizzò lentamente. “Sasha?”

“Shh.”

Steven si guardò intorno e vide i due addormentati lì. “Che ora è?” sussurrò.

Sasha gli mostrò l’orologio. Si mise in piedi tutto scricchiolante. La sua mano andò sui lividi gonfi del viso per valutare il danno. Fece una smorfia. Si diressero entrambi verso la porta, avanzando lentamente lungo il bordo della stanza.

“Ehi, Stevie,” disse una voce rauca.

Steven si bloccò. Sasha si voltò per vedere chi aveva parlato. Dix era disteso sul pavimento, appoggiato su un gomito, e li guardava con occhi socchiusi.

“Sì?” chiese Steven a voce bassa, cercando di non svegliare anche Jack.

“Perché non porti la tua ragazza qualche volta, quando non sono così ubriaco, in modo da essere presentati come si deve?”

Lo stomaco di Sasha si rigirò e si sentì nauseata. La faccia di Steven sembrava far da eco ai suoi sentimenti. “Certo, Dix,” concordò, facendo un altro passo verso la porta.

Dix abbassò la testa sul pavimento, chiudendo di nuovo gli occhi. Sasha non osava respirare. Si affrettarono a uscire di casa e si allontanarono per un isolato senza parlare.

“Non so come fai a stare lì,” commentò Sasha, buttando fuori l’aria in un lungo respiro di sollievo.

“Dix non è poi così male,” grugnì Steven.

“Forse non è così cattivo come gli altri,” disse Sasha, “ma è comunque abbastanza cattivo.”

Steven si gratto la mascella senza rispondere.

“Voglio dire, come puoi dire che non è poi così male?” proseguì Sasha. “Fa tutto quello che fanno gli altri.”

“Ma non comincia mai lui,” precisò Steven, “è solo un seguace. E a volte… è piuttosto gentile.”

“Se qualcuno mi trattasse con tanta gentilezza come fa con te, scapperei via.”

“Voi ragazzi pensate ancora che dovrei scappare dai miei problemi?” si lagnò Steven, il viso arrossato. “Nessuno per strada mi tratterebbe meglio. È dura ovunque.”

“Hai intenzione di farmi tornare lì per conoscere Dix quando non è ubriaco?” chiese Sasha scuotendo leggermente la testa.

Gli occhi di Steven si spalancarono per la sorpresa. “Sei impazzita?” chiese.

Sasha ridacchiò. “Facevo una considerazione. Mi stai dicendo che non cercava di creare problemi quando l’ha detto?” chiese Sasha, passando le dita tra i brillanti capelli rossi e guardando Steven con la testa inclinato di lato.

“Non era serio. Sa che non ti avrei mai portata a casa.”

Sasha scosse la testa. “Non capisco come fai a viverci,” ribadì.

Steven non commentò. Mentre si avvicinavano a scuola videro Potter fumare alla fermata dell’autobus. Steven imprecò e si lamentò premendosi le tempie. “Questo è tutto quello di cui ho bisogno adesso.”

“Oh, voi ragazzi non…” sminuì Sasha.

Steven annuì. Mentre si avvicinavano Potter li vide. Buttò la sigaretta e abbandonò la fermata. “Bene, il vigliacco e la sua guardia del corpo.” Diede un’occhiata al volto contuso di Steven e rise. “Che ti è successo? Hai fatto a botte senza che ci fosse lei a proteggerti? O hai guardato un’altra bella gnocca e lei ti ha picchiato?

Il volto di Steven era bianco e duro. “Faccio a botte da solo,” disse con voce pericolosa.

“Steven, non farlo,” protestò Sasha, afferrandogli il braccio.

“Stanne fuori,” sbottò Potter.

Steven si liberò da Sasha e afferrò Potter per il colletto. “Non parlarle in questo modo!” lo minacciò.

Potter si contorceva cercando di scappare alla sua presa. “Oh, quindi il cucciolo abbaia, eh? Sarei curioso di vedere se morde altrettanto bene!”

“Potter, lascialo in pace,” intervenne Sasha, cercando ancora d’interrompere la rissa.

“Lascia fare a me,” le disse Steven, senza guardarla. Afferrò Potter dalla gola con l’altra mano e strinse.

“Perché non puoi semplicemente lasciar perdere?” chiese.

Potter si agitò, cercando di avere una buona presa sulla mano di Steven per allontanarlo. “Hai paura di combattere onestamente?” chiese con voce strozzata.

Steven lo gettò all’indietro. “Vuoi davvero fare a pugni così tanto? Bene. Dai, su. Difenditi.”

Soddisfatto Potter si gettò nella rissa. Cinque minuti dopo Sasha cercava di tirare indietro Steven.

“Su, Stevie. È finita. Lascialo andare. Steven! Lascialo! Gli stai facendo male davvero!”

Riuscì a tirarlo via e Steven rimase lì per un momento aspettando che Potter si alzasse. Potter non si muoveva. Steven si rilassò, espirò. Guardò le sue mani e imprecò. Le nocche erano spaccate e c’erano schizzi di sangue sulla camicia.

“Non posso andare a scuola così.”

“Acuto, McCoy,” disse Sasha con tono sarcastico.

“Non andrò a casa a cambiarmi…”

“Be’, se non verrai a scuola oggi, puoi anche andare all’ospedale a sistemarti,” suggerì Sasha.

Steven si toccò la faccia. “Hai uno specchio?”

“Sì…” Sasha setacciò la borsa. “Ecco.”

Steven aprì la cipria con le sue dita goffe e tenne lo specchio in diverse angolazioni per esaminarsi la faccia e la testa. “Non è così male.”

“Lascia che mettano della pomata sui tagli e del ghiaccio sui lividi per un po’. Come va la testa?”

“Abbastanza male,” ammise Steven premendosi le tempie di nuovo e sussultando diventando bianco come un lenzuolo. Non toccava i lividi.

“Hai una commozione cerebrale?” suggerì Sasha.

“Sì, forse,” concordò Steven.

“Vai in ospedale,” ripeté.

“Forse.”

“Ci vediamo dopo la scuola? Al parco, va bene?”

“Sì, certo,” disse Steven con un cenno del capo. Se ne andò lungo la strada.

L’infermiera Haywood vide il ragazzo alto e magro trascinarsi all’accettazione e andò a parlargli. “Ciao, Steven. Come stai oggi?” chiese rapidamente.

Steven si guardò i piedi. Le sue scarpe da ginnastica erano sporche e logore, un dito usciva fuori da un lato. Doveva trovarne subito un paio nuovo. “Non male,” mormorò.

“Stai sanguinando?” chiese la Haywood, notando le macchie di sangue sulla camicia di Steven.

“No. Ho fatto a botte.”

“Con i ragazzi?” lo punzecchiò.

“A scuola.”

“Ah. Be’, diamoci una ripulita.”

Attese mentre Steven si alzava in piedi. Lui la seguì in una delle sale da visita. Si sedette mentre lei puliva i tagli sul viso, ritraendosi di tanto in tanto. Gli pulì le nocche sbucciate. L’infermiera Haywood esaminò i lividi scuri sulla gola di Steven.

“Questo non è stato fatto da un ragazzino a scuola,” disse.

Steven non le diede nessuna spiegazione. 

“La gola è completamente gonfia?” chiese, spronandolo gentilmente a parlare.

“Sì.”

“Ti darò delle aspirine; ma se dovessi avere problemi a respirare chiama il 911 o torna qui e fatti visitare, va bene?”

“Uh-uh.”

Gli occhi di lei scorrevano lungo il resto del corpo di Steven, poi tornarono sulla faccia, guardandolo negli occhi. “Nient’altro?”

Steven si strinse nelle spalle.

“Costole o organi interni?” insistette lei.

“No.”

“La testa?”

Steven annuì. Gli puntò una torcia negli occhi da diverse angolazioni ed eseguì un breve test neurologico facendogli seguire la penna con gli occhi.

“Hai le vertigini?” chiese la Haywood.

Steven chiuse gli occhi per un attimo, cercando di schiarire le immagini residue della torcia.

“Nausea,” disse seccamente. “Ci vedo doppio e mi fa male la testa.”

“Sai che significa.”

Steven annuì.

“Hai una commozione cerebrale. Sembra leggera, ma devi fare attenzione. Non uscire da solo. Siediti nella sala d’attesa se non devi andare da nessuna parte. Voglio che tu stia in un posto in cu ci sia della gente se hai bisogno d’aiuto.”

Steven fece spallucce, guardava in basso.

“Dico sul serio. Voglio che tu ti prenda cura di te. Va bene?”

“Okay.”


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Non Dimenticate Steven

By P.D. Workman

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